Il 2023 potrebbe essere un anno importante per il futuro della platform economy e delle big tech: entreranno in vigore due regolamenti europei – il Digital Market Act (DMA) e il Digital Service Act (DSA) – che mirano a contrastare il potere acquisito dalle grandi piattaforme rispetto ad altri attori economici, così come a favorire maggiore trasparenza sul loro funzionamento.
Il DMA ha come obiettivo specifico quello di contrastare l’abuso di posizione dominante dei cosiddetti ‘gatekeeper’ ovvero quelle società che hanno il controllo dell’accesso ai mercati digitali per via della loro maggiore disponibilità economica e finanziaria, per l’alto numero di utenti o per la capacità di porsi come intermediari. Alcune piattaforme – le cosiddette Big Tech come Google, Microsoft o Amazon – hanno oramai acquisito un ruolo infrastrutturale, dato che il loro funzionamento e i loro standard determinano le regole del gioco per tutti i partecipanti all’economia digitale, dai consumatori ai lavoratori, dalle imprese agli Stati. L’obiettivo del regolamento è quello di combattere le condotte sleali delle grandi piattaforme e stimolare l’innovazione e la concorrenza dei mercati digitali impedendo pratiche quali il leveraging (l’imposizione di commissioni elevate o la limitazione forzata dell’accesso ai servizi), il self preferencing (il favorire i propri prodotti a discapito di quelli altrui), l’imposizione di termini e condizioni poco trasparenti.
Il DSA si rivolge invece alle piattaforme di servizi quali l’intermediazione di attività ‘collaborative’, la condivisione di contenuti, l’utilizzo di risorse digitali. Il provvedimento ha l’obiettivo di chiarire il perimetro della responsabilità delle aziende rispetto ai contenuti offerti per proteggere i diritti dei consumatori e contrastare la manipolazione di informazioni. Per questo prevede, tra l’altro, l’obbligo a esplicitare chiaramente le condizioni di servizio così come a fornire indicazioni sulla moderazione dei contenuti e sull’uso degli algoritmi.
A questi due regolamenti che compongono il cosiddetto Digital Services Package può essere affiancato un terzo provvedimento, la direttiva per il miglioramento delle condizioni del lavoro di piattaforma che è in dirittura d’arrivo entro fine anno. Secondo le stime della Commissione, in Unione europea ci sono circa 500 piattaforme di lavoro che raggruppano più di 28 milioni di lavoratori. La gran parte di questi ultimi è inquadrata come collaboratori, ovvero lavoratori autonomi a cui sono spesso negati diritti e protezioni sociali. In questo caso la direttiva individua un ventaglio di criteri per determinare se la piattaforma è un datore di lavoro e, di conseguenza, debba classificare la manodopera come dipendente (le stime parlando di un numero compreso tra 1,7 e 4,1 milioni di lavoratori).
Accanto a queste iniziative sul piano europeo, in questi anni la produzione normativa attorno all’economia delle piattaforme si è sviluppata su una pluralità di scale, da quella nazionale (si pensi alla Ley Rider in Spagna) a quella urbana (ad esempio, la Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori digitali nel contesto urbano a Bologna). L’attenzione dei policy maker e dei legislatori su questo tema non può essere compresa se non viene collocata all’interno di una serie di linee di tensione che, per diverse ragioni, hanno creato attriti se non veri e propri conflitti fra le piattaforme da una parte e gli Stati e i cittadini dall’altra. È possibile individuare tre principali ambiti all’interno dei quali queste tensioni prendono forma.
Da un punto di vista tecnologico, le piattaforme hanno sviluppato degli strumenti e dei servizi il cui funzionamento è sempre più essenziale per le nostre società, dal cloud per le pubbliche amministrazioni alla mobilità urbana condivisa. La pandemia ha sicuramente accelerato la tendenza già in atto da anni verso la digitalizzazione del lavoro produttivo, delle relazioni sociali e affettive, dei processi decisionali e di costruzione dell’opinione pubblica. Eppure, molto spesso le regole di funzionamento di queste tecnologie si presentano come opache ai più, se non marcatamente verticali e asimmetriche. Gli strumenti delle piattaforme digitali – per esempio gli algoritmi – plasmano le nostre condotte, costruiscono abitudini e preferenze di consumo, ridefiniscono il perimetro delle nostre interazioni così come quello delle nostre decisioni.
In Italia, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è dovuta intervenire nel 2021 contro Amazon e nel 2022 contro Google per abuso di posizione dominante, costruita in entrambi i casi sul carattere chiuso delle proprie tecnologie.
Le potenzialità offerte da queste ultime – in termini di calcolo, controllo e previsione – sono alla base anche del potere economico delle grandi piattaforme. Cresciute all’ombra di politiche fiscali quantomeno compiacenti da parte degli Stati e grazie alla costante iniezione di liquidità a opera di fondi speculativi, queste aziende hanno trovato nei dati una merce preziosa e potenzialmente infinita. Oggi tutto può essere datificato, dalle opere d’arte al genoma, e quindi venduto.
La studiosa statunitense Shoshana Zuboff parla di un surplus comportamentale fatto di dati che vanno oltre l’utilizzo diretto di prodotti e servizi online e che possono includere informazioni relative all’ubicazione, all’età, alla professione, allo stile di vita.
Questi processi di estrazione di informazioni, contrariamente a quanto si era pensato inizialmente, non soppiantano il lavoro vivo – quello fatto da persone in carne e ossa – ma spesso lo intensificano ed estendono. Ne è testimonianza concreta la lotta internazionale dei rider del food delivery che ovunque nel mondo si sono organizzati per chiedere maggiori diritti e paghe degne.
Inoltre, va sottolineato il ruolo politico che spesso assumono questi attori economici. Secondo il rapporto The lobby network. Big Tech’s web of influence in the EU del Corporate European Observatory, sono 612 le aziende e i gruppi che fanno pressione sui processi legislativi della Ue in materia di economia delle piattaforme. Con una spesa in lobbying di oltre 97 milioni di euro all’anno, il settore tecnologico batte anche quello farmaceutico ed energetico. Ai primi quattro posti in termini di spesa ci sono, guarda caso, proprio alcune Big Tech statunitensi (Google con 5,8 milioni di euro, Facebook con 5,5 milioni, Microsoft con 5,3, con Apple 3,5).
L’attività di lobbying si è fatta più intensa proprio in occasione del DMA e del DSA, rispetto al quale la narrazione delle grandi piattaforme è che queste regole costituiscano un danno per i consumatori e una minaccia geopolitica per i Paesi dell’Unione di fronte alla competizione globale con Stati Uniti e Cina. A queste attività dichiarate vanno aggiunte tutte le forme di lobbying indiretto e sotterraneo di cui non si ha traccia se non per occasionali fughe di notizie, come nel caso degli Uber files che hanno rivelato come tra il 2013 e il 2017 la nota piattaforma di ride-hailing abbia fatto pressione su politici e accademici per supportarne l’espansione.
Se, quindi, le iniziative legislative da parte dell’Unione europea rappresentano un primo tentativo di far fronte a problemi ormai ineludibili, è altrettanto vero che le sfide che abbiamo davanti richiedono uno sforzo più complessivo.
Una maggior trasparenza nella raccolta e uso dei dati da parte delle piattaforme non basta a far chiarezza sulla razionalità intrinseca agli algoritmi e ai sistemi di intelligenza artificiale. Quale è la logica sottesa alle piattaforme: quella di una sempre maggiore messa a lavoro delle nostre vite tramite l’estrazione di dati o quella di un’innovazione sociale capace di liberarci (almeno parzialmente) dalle fatiche del lavoro?
Il rafforzamento di un regime di concorrenza è ben poca cosa se permane uno squilibrio materiale fra le grandi risorse economiche a disposizione delle Big Tech e i minimi diritti difficilmente esigibili a disposizione di utenti e lavoratori.
Il ruolo infrastrutturale acquisito da alcune piattaforme le rende degli attori privati che svolgono delle funzioni pubbliche. In che modo questo ruolo può essere svolto senza demandare i processi decisionali all’auto-regolamentazione delle imprese stesse? Il controllo democratico degli spazi e degli strumenti digitali necessità di più chiarezza e partecipazione degli oscuri ed elitari meccanismi di lobbying.
Ben venga, dunque, un avanzamento legislativo sul piano europeo ma attenzione a considerare la partita chiusa.
Abbiamo bisogno di sviluppare, innanzitutto, un ampio e approfondito dibattito pubblico sul ruolo e l’impatto delle tecnologie digitali.
Così come vanno sostenute quelle lotte e vertenze che danno forma concreta a rivendicazioni collettive nei confronti delle piattaforme. È su questo doppio binario – discussione generale e conflittualità locale – che nei prossimi anni si deciderà il futuro dell’economia delle piattaforme.