Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Come “storici” della Fondazione Feltrinelli siamo guidati da una convinzione di fondo: la missione principale di un patrimonio culturale è quella di rendere possibile l’accesso alle proprie raccolte ai gruppi sociali che quell’accesso ancora non l’hanno, nella doppia accezione dell’accesso fisico, ma anche della possibilità – effettiva – di fruirne un “senso”. Laddove questo “senso” non è determinato a priori dall’istituzione, “educando” i suoi fruitori a coglierlo; bensì, va inteso come un significato che genera dalle risposte che quei gruppi sociali e individui stanno cercando. Ciò che dunque serve, è che il patrimonio possa contribuire a creare la cassetta degli attrezzi utile a trovare risposte da sé e per sé, più che le risposte già predisposte dall’ospite.

Il fine ultimo, insomma, è la co-costruzione, co-autoriale, di un patrimonio che, nello stesso momento in cui “conserva”, abilita soggetti e gruppi che agiscono nel tempo presente, e, stando nel loro tempo presente, producono una documentazione – scritta, orale, digitale, ecc. – che l’istituzione ha tutto l’interesse di patrimonializzare, una volta individuati i criteri e i modi per farlo. La sfida, dunque, è quella d’immaginare la costruzione di nuovi canali culturali, di nuovi strumenti tecnologici per la disseminazione dei patrimoni tangibili e intangibili, della memoria – e delle memorie – dei gruppi e dei luoghi [ ⇒ l’archivio “vivo”]

Il patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, per esempio, è un grande patrimonio proprio perché, quando fu immaginato e avviato, fu innestato esattamente su questi principi, in connessione a una intensa attività di ricerca e a una poderosa attività militante. Gianni Bosio e gli altri primi collaboratori del Centro Studi frequentavano le manifestazioni di piazza e intervistavano i partecipanti col magnetofono, vale a dire che, mentre praticavano attività culturale e politica, producevano contestualmente il patrimonio della nostra istituzione e anche l’archivio vivo di quelle realtà e di quegli individui. Si tratta di un enorme lavoro di occupazione dello spazio pubblico, uno sforzo, quindi, che partendo dal passato lo “usa” come base da cui guardare il presente in cui siamo immersi.

Torniamo al patrimonio che regge questo intervento di “storia pubblica”. Questo patrimonio, se lo stimiamo “chiuso” nel suo format di senso ancor prima che per la sua composizione di fatto, rischia di non essere più competitivo in futuro. È dunque possibile ripensarlo proprio cogliendo nel migliore dei modi possibili il nesso fra ricerca e conservazione, nella consapevolezza che un archivio e una biblioteca possono diventare vivi se sanno alimentarsi vicendevolmente; cioè, se l’operatività della ricerca è in grado di produrre un output di contenuti che sia al tempo stesso un input archivistico. Ciò che, ancora, si può effettivamente fare soltanto qualora si sia in grado di rendere archivio vivo l’output generato dai soggetti con cui si entra in contatto, nello svolgimento dell’attività di ricerca e nell’azione quotidiana nel territorio, nelle città.

Oggi, in epoca di fake-news e uso politico della storia, tornare ad ancorare il passato, e anche l’analisi del presente, alle fonti e soprattutto a quelle di qualità, ha una nuova e strategica importanza. Sono le fonti a tutelare lo storico dal rischio che la sua soggettività si trasformi in arbitrio. Lo storico, ma chiunque maneggi informazioni e soprattutto giudizi, ha l’obbligo e il dovere scientifico di comprovare le sue ricostruzioni con un supporto adeguato al livello delle sue ipotesi di lavoro. Più ci si avvicina ai nostri giorni, e oggi diventa ogni giorno sempre peggio, più si moltiplicano le “fonti” disponibili, che per l’osservatore diventano quasi opprimenti.

Iniziando a lavorare sugli archivi del presente, è fondamentale e d’obbligo una riflessione preliminare e costante sulla quantità e qualità delle fonti, anche dei movimenti, anche “del presente”. Si passa da un regime di scarsità a un regime di sovrabbondanza, dove il problema principale non è più trovare le fonti, come per l’archeologo se vogliamo, bensì selezionare quelle di qualità, quelle più rilevanti: che è il problema, appunto, anche del fact-checking di oggi, che prima di tutto richiama, richiamerebbe, al buon senso e all’onestà intellettuale dei singoli. Se io discuto dei gusti alimentari di Marylin Monroe, forse posso essere anche vagamente approssimativo. Se parlo dell’Olocausto, non posso farlo.

Questo genere di problemi apre nodi essenziali nel momento in cui si pone il tema dei cosiddetti archivi vivi, vale a dire il problema di che cosa e di come patrimonializzare fra quanto i soggetti attivi nel presente producono in termini di documentazione.

Oggi, esiste un’enorme domanda di riconoscimento di “storia”, e dunque di racconto di storia, da parte di tutti quelli cui la storia – anche la propria – viene sistematicamente raccontata da altri. Gli sconfitti, i ceti popolari del passato, le vittime del potere per raccontare la storia delle quali mancano spesso le fonti. Per esempio, non abbiamo fonti chiare e pulite, e non abbiamo il loro punto di vista sulla propria storia, riguardo ai contadini dell’Ottocento italiano. Ancora, non abbiamo storie né fonti che soddisfino il senso comune relativamente alla sorte dell’anarchico Pinelli. Sciascia si pose a lungo il problema della storia “per cui non esistono fonti”.

Al di là della razionalità delle cose, non solo ciò per cui non abbiamo fonti, ma anche ciò che è infondato, se è divenuto senso comune, rimanda comunque a una materialità dell’esistente, delle relazioni, della vita delle persone di cui è doveroso tenere conto, o che comunque non si può fare finta che non esista. Sono anche questi dei “fantasmi dei fatti”, come li chiamava Sciascia, sono, cioè, questioni valide che rimandano allo stesso nucleo di problema: c’è un luogo dell’inquietudine che, nella disparità d’informazione fra le persone, fra i gruppi e fra le classi sociali, agita spettri che – al di là della loro “fondatezza”, fondatezza peraltro tutta da definire – richiamano al tentativo di una risposta, al tentativo di una risposta che sempre e comunque troverà il modo di esprimersi, come un fiume carsico, che ci piaccia o che non ci piaccia.

Allora, forse, se vogliamo guarire la società dalla menzogna, menzogna che spesso è usata come un’arma per la costruzione di odio, dobbiamo farci carico della grande domanda di risposte che le persone, nell’oggi, cercano relativamente alle grandi questioni di ieri, del presente e pure del domani. Ci pare che oggi si sia di fronte a una crisi dei grandi attori di queste risposte, contestati da più direzioni:

  • Le Chiese come costruttrici di risposte sul futuro;
  • Gli storici come costruttori di risposte sul passato;
  • I giornalisti e la politica come costruttori di risposte sull’oggi.

 

È una perdita di fiducia da cui non si esce con lo snobismo. È una sfida che si può vincere soltanto con un grande investimento sulla trasparenza riguardo alle cose dell’oggi (ciò che chiede un grande esercizio di democrazia – oltre che di diffusione della cultura) e fornendo le risposte che ancora mancano rispetto ai grandi quesiti e alle grandi tragedie di ieri (e, per stare soltanto all’Italia, nel nostro paese serve sanare ancora numerose, troppe ferite).

Bisogna fornire risposte calde, fondate ma calde, e dunque capaci di arginare l’emotività delle risposte epidermiche.

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