«Creare un archivio è un atto politico»: con questa affermazione Alessandro Casellato apriva l’ultimo appuntamento del ciclo di History Lab dello scorso 14 settembre. Uso politico della storia e archivi della connective action erano i temi su cui si chiudeva questo primo ciclo di incontri e su cui, al contempo, si inaugurava un nuovo cantiere di discussione: un prossimo progetto di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli sugli archivi del presente, per offrire da un lato una riflessione sulla patrimonializzazione delle memorie e, dall’altro, avviare un’attività di co-costruzione di un patrimonio che possa dirsi, effettivamente, vivo.
L’atto di generare un archivio – se per archivio si intende una raccolta di testimonianze, di qualsiasi genere esse siano – è sempre politico: se nasce da un potere costituito, ne è lo specchio e la sedimentazione, se origina invece da un soggetto ancora non riconosciuto, è strumento identitario (se non anche militante).
Oggi siamo di fronte a un proliferare di nuovi archivi come espressione di questa seconda accezione. Si pensi ad esempio agli archivi di comunità locali o di gruppi sociali considerati marginalizzati: in questi casi, le raccolte di testimonianze risultano essere strumenti attraverso cui rinsaldare il senso appartenenza al gruppo (e dunque riconoscersi), ma anche dispositivi per aumentare l’eco delle proprie voci in una società spesso sorda alle istanze di cui questi gruppi si fanno portatori. In questo senso, è anche attraverso i propri archivi che questi soggetti possono offrire uno sguardo sul passato (come sul presente) da prospettive solitamente non considerate, provando così a sovvertire, o quantomeno integrare, le narrative dominanti.
Attorno a questi nodi si sono mosse le riflessioni non solo di Casellato, ma anche di Alessandro Portelli e di Giovanni Contini, che teneva le redini dell’incontro. Portelli ha poi esteso ulteriormente i confini della riflessione, provando a risalire all’origine dell’affermazione di apertura: prendendo come punto d’osservazione privilegiato le raccolte di testimonianze orali, diviene evidente che l’atto politico iniziale nella creazione dell’archivio sia prima di tutto quello dell’ascolto delle voci che lo andranno a popolare. Affinché però un archivio possa adempiere al ruolo per il quale è stato immaginato, è tuttavia necessario che il gesto politico venga proseguito. In questo senso, se l’ascolto risulta essere il primo passo verso la creazione di un archivio vivo, la restituzione alla comunità di ciò che è stato generato attraverso la raccolta di queste testimonianze risulta essere un punto d’arrivo non prescindibile.
La rilevanza delle raccolte di testimonianze nell’attivismo politico contemporaneo, specie nella connective action, è stata messa in luce anche da Luca Falciola. A questo proposito, è da circa un decennio (almeno dal tempo delle primavere arabe e di Occupy Wall Street) che i movimenti sfruttano il web, e soprattutto i social media, come mezzi, ma anche come luoghi fondamentali dell’azione collettiva: «online non solo si comunica, ma si costruiscono identità militanti, si diffondono contenuti alternativi, si informa e disinforma, si socializza, si dibatte, si educa, si elaborano strategie per l’azione, si sfidano gli avversari, si chiamano a raccolta le forze, si esprime solidarietà». «Dobbiamo però risvegliarci – continua Falciola, rivolgendosi a tutti coloro che di questi movimenti cercano di raccontare le storie – dall’illusione che i social media possano essere archivi di se stessi». Esistono casi, come quello della Women’s March on Washington, in cui la dimensione conservativa-testimoniale è stata parte integrante dell’atto politico, nata contestualmente a esso; molte altre situazioni restituiscono però una realtà opposta, ovvero la mancanza pressoché totale di raccolte strutturate di documenti che possano testimoniare l’itinerario digitale della mobilitazione politica.
Si tratta di un panorama che induce a riflettere su questioni tecniche, metodologiche e anche epistemologiche, da un punto di vista conservativo-archivistico e di mestiere storico, che al contempo suggerisce almeno due indicazioni per il futuro. In primo luogo, mette di fronte alla rilevanza analitica del processo di patrimonializzazione: essere selettivi è fondamentale, archivi troppo estesi e privi di criteri conservativi non possono offrirsi come strumenti utili ed efficaci – secondo Falciola, «serve mettersi al lavoro perché questa opulenza informativa non si trasformi in povertà informativa, se non amnesia informativa». In secondo luogo, ricorda l’imprescindibilità del patto di fiducia, di un rapporto solido tra chi svolge il ruolo di attivista e chi di archivista (nel caso in cui le due istanze non coincidano e non si sovrappongano), su cui ha puntato l’attenzione anche David Bidussa.
Di fronte a quel differenziale di potere che separa chi ascolta da chi viene ascoltato e alla conseguente necessità di negoziazione e ricerca di simpateticità, torna così al centro della riflessione il tema dell’ascolto come primo e fondamentale atto politico. Per Irene Bolzon, è questo uno dei punti di partenza per fare in modo che i patrimoni che storiche e storici contribuiscono a generare possano essere percepiti davvero come bene comune, e non come espressione di un gruppo chiuso e circoscritto, quando non di un processo verticistico. Sono queste esperienze, d’altra parte, che mettono di fronte al problema del porsi gli interrogativi giusti come public historian, come mediatrici-mediatori di comunità.
Si chiede Bolzon: conosciamo davvero le domande che vengono dal basso? Qual è la nostra capacità di ascolto? Sono questi interrogativi che risuonano spesso nelle iniziative di Fondazione Feltrinelli, come ricorda Luigi Vergallo, proseguendo poi nel ragionamento e restituendo alla discussione un interrogativo rimasto aperto: se la richiesta a cui assistiamo oggi sia effettivamente una richiesta di Storia o, invece, diversamente, una richiesta di storie – intese come cronache di eventi e fatti appartenenti al passato.
In questo intricato processo, in questa fase estremamente viva di documentazione dal basso e partecipazione diffusa, il ruolo delle storiche e degli storici può essere prima di tutto quello di aiutare a storicizzare il presente, inserendo queste pratiche all’interno di una tradizione più lunga di attivismo militante. Allo stesso tempo, può essere quello di suggerire indicazioni su come preservare e rendere accessibili queste testimonianze – affinché siano utili oggi, per le lotte del presente, ma anche domani, a chi queste lotte vorrà analizzarle, studiarle, capirle, oppure proseguirle. Come hanno ricordato Silvia Tagliazucchi e Matteo Di Cristofaro, in ultima analisi, l’archivio rappresenta anche uno strumento di costruzione di nuovi immaginari, poiché è la raccolta stessa delle testimonianze a poter corrispondere a un atto politico di risignificazione delle fonti.
Ciò che certamente non rientra nel ruolo di storiche e storici – ma più in generale di tutti coloro che vogliono fare da ponte per le storie di questi movimenti, sottolinea provocatoriamente Alessandro Portelli in chiusura dell’incontro – è «dare voce a chi non ha voce». Gli archivi possono certamente essere strumenti utili per far emergere le narrazioni di quei soggetti spesso relegati ai margini, tuttavia la prospettiva dovrebbe essere invertita. Le istanze di persone e gruppi sociali di cui e con cui si vogliono raccogliere le testimonianze esistono sia prima, sia dopo l’intervento di mediazione e rielaborazione di chi svolge il mestiere storico: la voce di questi soggetti non acquista valore solo nel momento in cui risulta ascoltata e successivamente conservata da figure che si pongono come intermediarie. Semmai, sostiene Portelli, «sono loro che danno voce a noi», permettendoci di arrivare dove prima non si poteva, colmando lacune analitiche a cui altrimenti non si sarebbe potuto dare risposta. Si tratta di un monito, un’esortazione, che pone ancora una volta di fronte alla necessità di creare reti di relazioni solide, nelle quali praticare attivamente l’ascolto di ciascuna soggettività, attraverso lo sviluppo di network di lavoro interdisciplinari, che sappiano quindi valorizzare le competenze acquisite da ciascuna persona.
È nell’incontro di queste molteplici esigenze che si potrà dare vita ad archivi vivi e partecipati, che possano offrirsi come dispositivi politici utili alla costruzione di un senso di appartenenza alla comunità, intesa come spazio aperto e ospitale in quanto originato nella pratica dell’ascolto.