Se c’è una storia che racconta il percorso incompiuto della Bosnia, trent’anni dopo la guerra che ha devastato la regione, è quella della Krivaja, fabbrica di legno situata nella città di Zavidovići, che per cento anni, dagli Asburgo fino a Tito e alla Jugoslavia, è stata uno dei vanti dell’economia balcanica.
A impiantare per prima una segheria qui fu la ditta triestina Morpurgo-Parente. Dal taglio degli alberi dei boschi che circondano la Krivaja, i triestini, insieme ad austriaci e tedeschi, ricavavano il legno che serviva per le necessità dell’impero. Mobili, utensili, materiale da costruzione per strade e ferrovie e case di legno che nel tempo sono diventate il prodotto di eccellenza dell’industria.
L’apice del successo arrivò nel periodo jugoslavo negli anni Ottanta, quando gli occupati erano dodicimila, con succursali negli Stati Uniti e in Europa. Dalla segheria originale nacque un apparato industriale che mantiene tuttora l’alta qualità delle case di legno prefabbricate.
Ma la realtà di oggi è ben diversa dalla gloria che fu, seppure la Krivaja abbia resistito alla distruzione delle guerre del Novecento. Il processo di privatizzazione, intrapreso dal Duemila, è stato mal governato, come in generale è accaduto nell’ex Jugoslavia, e ha smembrato in varie parti la Krivaja, facendo crollare il suo valore quanto i livelli occupazionali. Solo il settore delle case prefabbricate ha ripreso la piena funzionalità ed è un simbolo di resistenza, e non solo per la città.
Un passaggio che il tecnico di produzione Sifet Okanović, che dal 1978 non ha mai abbandonato l’industria, racconta così: «Nella grande fabbrica non avevamo paura del domani. Il successo internazionale della Krivaja era un orgoglio per noi e per la Jugoslavia. Il suo destino ha coinciso con il disegno delle nostre vite».
Oggi i lavoratori sono una frazione di quelli che erano: così anche i prodotti. E l’espansione internazionale è imparagonabile. Ma l’esperienza di Sifet rimane un punto di riferimento per la nuova generazione della Krivaja. Come Selma Sestovic, progettista che nel 2008 si è laureata in architettura alla Sapienza di Roma ed è tornata a Zavidovići nella Bosnia ed Erzegovina centro orientale, nel cantone di Zenica-Doboj: «Lavorare in questa fabbrica mi ha permesso di ricostruire il senso delle mie radici incrinato dalla guerra e dall’emigrazione. Il mio futuro è qui: e non solo il mio».
Sifet Okanović, nato nel giugno del 1957 a Zavidovići, varcò poco più che ventenne per la prima volta la soglia della Krivaja, capace di modellare l’avvenire della città del legno. Sifet cammina nello stabilimento in cui ha trascorso la vita, mostrando la bellezza delle case prefabbricate in legno, prodotto di punta del kombinat industriale che dopo la guerra degli anni Novanta ha ripreso a esportare nel mondo, e riavvolge le memorie: «Sono stato assunto dopo sette mesi di apprendistato. Fino alla guerra esisteva un’importante scuola professionale, nella quale si è formata la mia generazione, che costituiva il bacino diretto ed essenziale per la Krivaja. La città, dai servizi agli investimenti culturali e sportivi con il glorioso club di pallamano, è cresciuta insieme al “gigante”».
Trent’anni dopo l’indipendenza della Bosnia, la lacerazione della guerra fratricida e la transizione economica incompiuta dalla realtà jugoslava, insieme agli altri tecnici, progettisti e operai Sifet è l’anima della parziale ripresa di una storia industriale importante.
Nel 1887 la Morpurgo-Parente comprese le potenzialità della zona, investendo nella segheria, e costruì la rete infrastrutturale con la ferrovia che collega la città alla valle del fiume Gostović. Nel viaggio da Sarajevo si costeggiano i tre fiumi che disegnano questo territorio: la Bosna, il Gostović e il Krivaja. L’area è di pregio naturalistico e ricca di risorse boschive. Dall’iniziativa della ditta triestina è sorta una fabbrica dalle radici multiculturali europee.
L’arrivo da Budapest della Gregerson e figli ampliò il nodo ferroviario nella valle del fiume Krivaja. Zavidovići divenne una vera e propria municipalità all’alba del Novecento, essendo ormai un distretto economico fondamentale per l’Impero Austro Ungarico. La manodopera specializzata affluiva da tutte le regioni dell’impero, formando una società locale composita. Dopo gli italiani e gli ungheresi, l’attività passò agli austriaci della Eisler e Ortlieb che proseguirono nella crescita. Dalla segheria originale nacque un apparato industriale autosufficiente che produceva mobili, utensili, materiale per l’edilizia fino alla lavorazione del metallo.
Negli uffici della Krivaja ci sono ancora documenti sugli interventi realizzati anche in Italia in occasione del terremoto del Friuli per garantire moduli abitativi sicuri. I segreti del successo sono stati la qualità del legname disponibile nei boschi (faggio, quercia, abete, rovere), il controllo di qualità della filiera produttiva, il centro di ricerca interno, la rete infrastrutturale e quella commerciale che raggiunse cinque continenti. Dirigenti illuminati, gli sloveni Josip Vadnjal e Djordje Blagojević, guidarono il boom nel secondo dopoguerra mondiale.
«La fabbrica è come se ci sia sempre appartenuta – spiega Sifet – . Abbiamo sviluppato un luogo creativo di ricerca, sperimentazione e socialità. Le storie famigliari di Zavidovići si intrecciano con quelle del legno che costituisce la nostra identità». La Krivaja ha resistito alla distruzione delle due guerre mondiali e non è caduta tra il 1992 e il 1995: «Nella guerra degli anni Novanta la linea del fronte dei combattimenti non era distante da qui. Eravamo affamati, ma il pensiero principale era di difendere la sua integrità e nel 1995 siamo stati subito pronti a produrre per l’emergenza le case».
Con il processo di privatizzazione è finita l’organicità dell’impianto.
Zavidovići, a maggioranza bosgnacca (bosniaca musulmana), esprime i nodi che riguardano la transizione mancata del Paese, cristallizzato dagli accordi di pace di Dayton. I giovani emigrano e la classe politica alza le tensioni, dividendo le persone su base etnica. «Lo stravolgimento demografico e sociale della guerra – sottolinea Sladjan Ilić dell’Ambasciata di Democrazia Locale – tradisce l’antica traccia cosmopolita di questa terra. Ora viviamo gli uni separati dagli altri. Il cambiamento può nascere solo dal basso e dal nostro impegno quotidiano nel riconoscere le rispettive ferite non suturate».
La guerra ha plasmato quattro generazioni in qualsiasi ambito della vita. Dopo trent’anni la personalità di tutti coloro che l’hanno vissuta in modo diretto e indiretto è ancora influenzata. «Il trasferimento del trauma della guerra di generazione in generazione è l’aspetto più preoccupante – spiega la neuropsichiatra Irfanka Pašagić, pioniera nel trattamento e cura dello stress post traumatico –. Manca il riconoscimento reciproco. Nelle scuole non si rielabora ancora il vissuto del conflitto e ogni parte in causa racconta la propria versione della storia».
Il pensiero corre a Sarajevo, che è stata uno degli ultimi centri urbani multietnici, multilingue ed ecumenici che erano il vanto dell’Europa centrale e del Mediterraneo Orientale. Nei paradossi che regala la Storia, è stata luogo di violenza dall’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando all’ultimo assedio (1992-1996), ma resta vivo il senso della sua resistenza dall’epoca ottomana, austroungarica e jugoslava.
L’unicità della cultura pluralista di Sarajevo, capace di sopravvivere alla Prima Guerra Mondiale e a dispetto delle successive guerre e genocidi, è un bene da preservare.
Sarajevo, emblema del cosmopolitismo incrinato dalla retorica etnonazionalista, guarda all’Europa per risolvere l’isolamento di uno Stato, mai uscito compiutamente dal dopoguerra, che vive una crisi profondissima e percepisce sempre più distante l’obiettivo dell’integrazione nell’Unione europea. Sarajevo, che ha presentato una richiesta formale di adesione all’Ue nel 2016, ha ricevuto tre anni dopo una bocciatura. La Commissione ha stilato 14 priorità da realizzare per il riconoscimento dello status di candidato all’adesione Ue.
La situazione della giustizia, della politica che governa sul principio della spartizione etnica del potere e della corruzione dilagante alimentano la crescente sfiducia dei cittadini verso i cardini dell’ordinamento statuale in un sistema istituzionale molto complesso.
Lo Stato, prodotto degli accordi di pace di Dayton del 1995, si articola nella Federazione della Bosnia ed Erzegovina, abitata in prevalenza da bosgnacchi e croati, e nella Republika Srpska a maggioranza serba. Negli ultimi mesi l’ultra nazionalista Milorad Dodik, ex presidente della Republika Srpska in cui ricade il territorio del genocidio di Srebrenica e rappresentante serbo nella presidenza federale tripartita del Paese, ha aperto dichiaratamente uno scenario da secessione, prefigurando tra i propositi la creazione di un esercito serbo bosniaco.
La Corte Costituzionale della Bosnia ed Erzegovina ha appena bocciato la legge voluta dalla Republika Srpska che pretende il possesso delle proprietà (come le compagnie pubbliche) nel territorio dell’entità. La giurisdizione resta esclusivamente allo Stato bosniaco.
Banja Luka, capitale dell’entità serba, appare sempre più lontana da Sarajevo, come descrive l’analista politico e scrittore Dragan Bursać: «Sono cresciuto nella Republika Srpska, figlio di un serbo e di una croata. Ho vissuto in prima persona gli effetti dell’ultra nazionalismo. Chi rifiuta la classificazione etnica ha difficoltà nell’accesso alle opportunità di lavoro. Nel concreto è una forma di apartheid. Le elezioni costituiscono un’occasione per riportare in auge i criminali definiti alla stregua di eroi. Li usano per plasmare un’identità nei giovani privi di riferimenti credibili».
In questo clima, aggravato dai riflessi della guerra in Ucraina e della crescente influenza russa, la Bosnia si avvicina alle elezioni nazionali, fissate per il 2 ottobre, che la propaganda politica trasforma sempre in un’ulteriore occasione per acuire le divisioni lungo la linea etnica nella società.
Gli elettori sono chiamati a scegliere i tre membri della Presidenza collegiale e i loro rappresentanti sia nel Parlamento centrale sia in quello delle due Entità che formano il Paese. La situazione di stallo del Paese è emersa dall’impasse della riforma elettorale all’organizzazione del voto.
Per le none elezioni generali della Bosnia sono registrati 3,368,666 votanti. Negli ultimi otto anni mezzo milione di persone, soprattutto giovani, sono emigrati dal Paese a causa della condizione politica ed economica. La Commissione Elettorale Centrale ha approvato la partecipazione abnorme di 145 soggetti politici (90 partiti, 38 coalizioni e 17 candidati indipendenti), 750 liste per 7257 candidati.
Zavidovići lascia questa sensazione di sospensione tra un passato ancora irrisolto e il futuro che tarda ad arrivare. Dalla prospettiva locale e globale della Krivaja, l’operaio Sifet sa guardare al futuro, si misura con le nuove sfide del design e quelle produttive, ma affiora un velo di Jugonostalgija. Sorride alla domanda se da qualche parte nella fabbrica conservi ancora una foto di Tito: «Non vivo nel passato e sono consapevole dei limiti della storia jugoslava. Tuttavia oggi è imparagonabile il livello dello Stato sociale dalla scuola alla sanità. Questo è il tempo di sfidare l’incertezza».
A trent’anni dall’indipendenza della Bosnia e dalla deflagrazione della guerra, lo schema della rappresentanza politica su base etnica dei partiti nazionalisti pretende ancora di dettare l’agenda e ostacola il cambiamento.
La principale posta in palio del voto consiste proprio nel superamento di un assetto che dalle prime elezioni del 1990 paralizza il governo del Paese. La competizione tra il Partito d’azione democratica (SDA), la Comunità democratica croata (HDZ) e il Partito Democratico Serbo (SDS), sopravanzato dall’SNSD di Dodik sempre più attento agli interessi di Vladimir Putin, di stampo nazionalista maschera la volontà comune di spartizione e controllo del potere.
Dopo gli accordi di Dayton queste formazioni sono riuscite a conservare il consenso, nonostante l’inefficienza nella gestione della cosa pubblica, la corruzione, i discorsi d’odio che avvelenano lo scenario sociopolitico e l’economia determinata dall’assistenzialismo. L’impatto della pandemia è stato molto forte e ha confermato tutte le mancanze della classe politica.
In questo quadro si muovono formazioni che puntano a coagulare il consenso, superando la frontiera etnica come il Partito socialdemocratico (SDP), Popolo e Giustizia (Narod i pravda) e Nostro partito (Nasa Stranka). Undici partiti, avversi alla narrazione nazionalista convergono sulla candidatura di Denis Bećirović (SDP BiH), classe 1975, a membro della presidenza bosniaca. Una scelta che potrebbe segnare anche un cambio generazionale rispetto alla chiusura del mondo politico ai giovani. Sull’esito delle elezioni pende sempre l’incognita della bassa affluenza alle urne di un elettorato sfiduciato che non supera la percentuale del 50%.
Secondo lo studio del centro di ricerca Istinomjer, delle 189 grandi promesse elettorali di questi partiti, vincenti durante la precedente tornata elettorale, soltanto sei sono state pienamente mantenute. Durante la campagna elettorale le indagini della Ong Transparency International hanno rilevato 1.300 casi di distrazione e utilizzo improprio del denaro pubblico per fini politici dei partiti e dei candidati. Nel periodo pre elettorale è cresciuta in modo anomalo la spesa pubblica per le infrastrutture: 226 opere pubbliche sono state concluse negli ultimi due mesi per un totale di 175 milioni di marchi (circa 87,5 milioni di euro).
Le persone sono stanche delle consuete retoriche populiste che non risolvono i problemi quotidiani, ma non vedono una concreta alternativa. La gente ha cominciato a rendersi conto, anche per gli scandali nell’emergenza della pandemia, a livello locale e nazionale, della gestione clientelare e affaristica degli eventi e del potere da parte della classe dirigente. Le persone alle prese con la perdita di qualsiasi sicurezza sociale hanno visto concretizzarsi ciò che hanno sempre saputo del sistema dei partiti.