Professoressa Associata di Pedagogia presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca

Si chiama trappola della somiglianza e questa volta non dobbiamo caderci. L’idea diffusa e radicata che per essere cittadini si debba essere simili, se non identici, condividendo gusti calcistici o musicali, stili di vita e culturali. Immagini di giovani musulmane capaci di recitare a memoria la Divina Commedia, adolescenti dagli occhi a mandorla che tifano Italia, intere classi multiculturali capaci di cantare l’inno di Italia hanno popolato in questi anni telegiornali e social media. Quanta retorica in queste narrazioni! E a ben vedere non ci hanno portato molto lontano…

Quella della somiglianza è sempre una trappola. Per chi è contrario alla riforma, i nuovi italiani non saranno mai abbastanza simili all’idea di italiano medio, anacronistica ma ben radicata nelle menti di molti.

L’idea che ci porterà – inshallah! – all’approvazione della tanto attesa riforma della cittadinanza è radicalmente diversa: cittadini non si nasce ma si diventa, a partire da storie, esperienze, stili di vita sempre più diversificati ma prendendo parte a un progetto comune di convivenza civile.

Attivisti, politici, ricercatori, mossi spesso dalle migliori intenzioni: ci siamo caduti tutti. La trappola della somiglianza ha attraversato le narrazioni di movimenti e partiti tra i più sensibili ai diritti: l’idea di Ius culturae, presente in una delle precedenti proposte di riforma della cittadinanza, intendeva per esempio sottolineare il diffuso senso di italianità delle nuove generazioni, la naturale appartenenza all’unico paese conosciuto da questi bambini e ragazzi, che di rado visitano e conoscono la terra e la lingua dei loro genitori. La cultura, qualcosa di fluido e indefinibile, diventava il criterio attraverso il quale sancire concreti diritti e doveri. Per essere un vero italiano, in fondo, dovevi riunciare a lingua, abitudini, stili di vita dei tuoi genitori.

Anche nell’ambito della ricerca sociale, abbiamo enfatizzato le differenze tra i migranti della prima ora e i loro figli, considerando questi ultimi più simili ai nostri e più facili da integrare. L’arrivo di giovani rifugiati e minori non accompagnati ha messo in crisi la distinzione netta tra queste categorie, rivelatesi artificiose e poco utili.

Prudente e limitata in molti aspetti, la proposta di riforma della legge sulla cittadinanza dello Ius scholae evita la trappola della somiglianza, a partire da un’idea diversa e forte: cittadini non si nasce ma si diventa. È a scuola che, indipendentemente dalle storie di ognuno, il luogo in cui si può costruire un senso di appartenenza e partecipazione alla base del nostro vivere civile.

Il progetto democratico della nostra scuola nasce da lontano e trova la sua più netta esplicitazione nella nostra Costituzione. “La scuola è aperta a tutti”, recita l’art. 34, principio che nessun’altra costituzione europea esplicita in maniera così netta e radicale. Rileggendo il dibattito dei nostri Padri costituenti precedente alla stesura di questo articolo, si coglie come a livello trasversale la scuola sia stata considerata come lo strumento più straordinario e potente di ricostruzione del Paese e antidoto alla guerra. È questa la scuola dove ancora oggi – nonostante i drammatici e crescenti tagli alla spesa pubblica in istruzione – sono presenti dietro gli stessi banchi alunni abili e diversamente abili, con difficoltà di apprendimento e plus-dotati, con prima e seconda casa di famiglia o privi di residenza, autoctoni, nati in Italia da genitori stranieri o neoarrivati da un altro Paese. Non esiste in nessuna parte d’Europa e del mondo una scuola, almeno negli intenti, inclusiva come la nostra.

La scuola pubblica non si fonda sul principio di somiglianza ma sul principio di diversità. È in questa scuola che alunni e studenti imparano, negli spazi informali della giornata scolastica così come nelle ore curricolari, a confrontarsi con storie, esperienze, vissuti profondamente diversi dai propri. A scuola si scopre che il proprio compagno di classe non ha mai visto il mare o fatto una vacanza. A scuola si impara che non è scontato vivere una festa religiosa o un’altra. A scuola si sperimentano i ritmi diversi di apprendimento, le forme diverse di socialità, le diversità di genere e orientamento sessuale. A scuola ciascuno scopre in fondo se stesso e chi vuole essere, incontrando gli altri. Crescendo, si riduce drasticamente la possibilità di fare esperienze di questo tipo. I nostri mondi adulti, lavorativi o informali, sono fortemente connotati da somiglianza e omogeneità. Possiamo vivere lo stesso quartiere di periferia magari, ma altra cosa è condividere la quotidianità della giornata e dell’aula scolastica.

C’è un’ora di scuola che più di ogni altra mette in luce diversità delle storie di vita e partecipazione a un progetto di vita comune. È l’ora di Storia, disciplina mai neutra, che suscita emozioni forti negli alunni, specialmente quando tocca “temi caldi”, anche lontani nel tempo: le migrazioni nell’Impero Romano, i genocidi di popoli vicini o lontani, i totalitarismi e in particolare il nazifascismo, le pagine più recenti del colonialismo e della decolonizzazione, per fare qualche esempio.

Disinteresse, noia, apatia. O viceversa: conflitto, provocazione, rifiuto durante le commemorazioni sono all’ordine del giorno nelle nostre scuole superiori. Si apre, in particolare per gli insegnanti, una sfida complessa dal punto di vista educativo: non lasciare cadere le provocazioni, ascoltare i ragazzi, coinvolgerli e renderli protagonisti attivi della Storia, magari a partire dalle personali e collettive di sofferenza e violazione della libertà che alcuni di loro hanno vissuto. È in quei momenti, spesso inaspettati, nei quali la Storia risuona in classe che ognuno può imparare a sentirsi parte di una comunità, quella della classe ma rappresentativa della società intera. È in quelle occasioni, sfidanti e preziose, che la coscienza collettiva si forma e il senso di cittadinanza diventa qualcosa di concreto per adulti e ragazzi. È in quel luogo, la scuola, che diventiamo e ridiventiamo tutti cittadini, non per somiglianza ma per adesione a un progetto comune di futuro, che nasce dal modo in cui poniamo il nostro sguardo sul passato. Abbiamo bisogno urgentemente di uno Ius scholae, potrebbe essere un’occasione di rinascita per tutti.

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