Anche il Centro ha il suo populismo, che non crede nel dibattito democratico pluralista e cerca di portare in Italia una nuova politica “oligarchica” in cui la rappresentanza diventa un lusso riservato alle élite. Una deriva pericolosa e sottovalutata
È diventato ormai un classico (spesso troppo poco frequentato) il libro del 2007 di Naomi Klein Shock Doctrine. Un testo che spiega le dinamiche basilari attraverso le quali le crisi (per esempio quelle economica e climatica ma non solo, pensiamo a quella recente pandemica o bellica) vengono utilizzate politicamente per restringere i diritti civili e sociali a vantaggio di pochi privilegiati.
Circa dieci anni dopo, lo storico economico Adam Tooze ha spiegato nel suo Crashed come dieci anni di crisi economica abbiano cambiato la struttura delle nostre società, ma anche come tali crisi fossero prevedibili, come non siano state affrontate con correttivi in grado di non scaricarle sulle classi più svantaggiate e come le politiche economiche che le hanno causate non siano state messe in discussione dalle classi dirigenti. Sono solo due esempi di un importante filone di riflessione che approfondisce un principio basilare della politica contemporanea: non esiste e non può esistere una sola ricetta per contrastare le crisi ma, al contrario, ogni volta che uno o più governi si trovano a fronteggiare delle congiunture avverse, scelgono politicamente a vantaggio e svantaggio di chi risolverle.
In questo senso, l’idea stessa del governo tecnico o neutro non può ontologicamente sussistere nello spazio politico democratico.
Non è quindi vero che in tempi di pandemia, crisi economica e guerra non si possa andare a votare, né che il passaggio elettorale di per sé comporti conseguenze nefaste per il Paese che indice libere elezioni. Dopotutto, il voto è lo strumento principe dell’esercizio della sovranità popolare e può anche determinarsi il caso che sia necessario riconvocare alle urne la cittadinanza proprio in virtù delle prove straordinarie che gli esecutivi sono chiamati ad affrontare.
Alle nostre latitudini, infatti, l’instabilità politica non è quasi mai determinata dalla convocazione elettorale (che ne è semmai una conseguenza) ma dall’assenza di regole infrastrutturali certe e consolidate nell’esercizio della democrazia rappresentativa. La mancanza di una legge elettorale stabile inserita in Costituzione (maggioritaria o proporzionale), il taglio sciagurato del finanziamento pubblico ai partiti che ha reso la politica sempre più appannaggio di pochi benestanti e dunque un mestiere non per collettivi ma per singoli notabili, l’assenza di un ragionamento olistico intorno al ruolo di partiti e corpi intermedi fanno sì che l’arena politica sia popolata oggi per lo più da individui in carriera che non da gruppi organici a interessi sociali strutturati.
Di qui, la continua composizione e scomposizione di gruppi parlamentari, l’aumento dei cambi di casacca, la corsa alla composizione di liste elettorali non unite da un orizzonte ideale quanto dal desiderio di quei singoli di trovare rielezione o status.
Solo alcune riforme profonde delle regole del gioco democratico italiano possono far fronte a questa dinamica impazzita che si regge sui destini di personaggi in cerca d’autore.
Come ha spiegato Carlo Galli, filosofo, teorico politico ed ex deputato, nella sua ricostruzione delle dinamiche parlamentari della scorsa legislatura in Democrazia senza popolo, quando i partiti sono forti vi sono meno schegge impazzite, meno ricomposizioni continue e, soprattutto, i Governi si compongono sulla base di reali mediazioni tra le forze in campo, non in nome di una fittizia maggioranza esistente solo in Parlamento e non nel Paese. D’altro canto, spiega sempre Galli, i regolamenti parlamentari permettono già oggi di far approvare in tempi veloci qualsivoglia provvedimento, laddove la volontà politica vi sia. Dunque, non sono gli strumenti legislativi a mancare bensì la connessione tra eletti ed elettori e dunque l’accountability di un intero sistema politico.
Su questa crisi, strutturale, si impernia quella – emergenziale, ma sempre più sistemica – peculiarità italiana del ricorso al governo “tecnico”, neutro, senza alcuna formula politica, di migliori, di esperti, di ottimati, di unità nazionale: solo alcune tra le formule utilizzate nell’ultimo decennio. Questa assoluta eccezione italiana, sconosciuta alle democrazie occidentali pluraliste e liberali, si fonda sulla strutturale debolezza di partiti e personale politico e contemporaneamente su un inganno ideologico profondo.
Come si è detto, le crisi sono sempre risolte a favore di questa o quella parte sociale, rendendo dunque inverosimile che possa esistere un “sapere tecnico” o una “politica neutra” che benefici tutti contemporaneamente: ciò che si cela dietro le soluzioni tecniche è semmai la tutela di alcuni interessi specifici che, invece di venir apertamente riconosciuti come nel normale confronto elettorale, sono celati.
L’idea, perseguita dai padri costituenti, che i Governi si formino in Parlamento e dunque che non via sia un’elezione diretta del presidente del Consiglio, aveva come fine quello di dare maggiore cogenza e forza alla rappresentanza sociale e di interessi, che appunto nelle Camere avrebbero trovato mediazione e composizione; l’idea, perseguita negli esecutivi tecnici, va nella direzione opposta: trattare gli interessi sociali come la notte nella quale tutte le vacche sono nere, mettendo sotto il tappeto dell’esecutivo la polvere di un conflitto sociale puntualmente pronto a riesplodere. In questo scenario nascono quelli che si possono definire come “estremismi di centro”.
L’estremismo di centro si caratterizza per un alto tasso di personalizzazione della politica, una radicale sfiducia nei meccanismi di costruzione del consenso e una peculiare retorica della responsabilità.
Ovverosia, consiste in una serrata propaganda intorno a personalità singole identificate come “esperte” e salvatrici, intorno alla pericolosità dell’instabilità identificata nel dibattito democratico pluralista e intorno all’idea che chi non supporta il “governo unico” sia “nemico del Paese”. Come risulta evidente, l’estremismo di centro è in tutto simile al populismo, dal quale si differenzia solo perché è usualmente proposto da esponenti ad alto tasso di istruzione, provenienti da circoli culturali influenti e inseriti in network intellettuali e sociali dell’alta borghesia urbana.
Esattamente come il populismo, l’estremismo di centro ha in spregio i corpi intermedi (sindacati, terzo settore, volontariato); chiede da anni forme di presidenzialismo e semi presidenzialismo che incoraggerebbero la disintermediazione; non crede nella politica come forma di impegno pubblico e pertanto pubblicamente finanziato, ma come impegno privato appannaggio del tempo libero di personalità benestanti.
In questo senso, il grande centro è di fatto un’estensione della destra dell’uomo forte al comando e dell’aziendalizzazione di qualunque logica istituzionale.
È la pietra tombale su qualunque prospettiva per cittadine e cittadini nati da famiglie non influenti di poter dire la loro su valori, leggi, visioni strategiche. L’estremismo di centro è, d’altro canto, uno dei massimi sostenitori del modello statunitense di organizzazione degli studi superiori: un modello classista nel quale accanto a pochi centri di eccellenza vi sono una serie di Università locali abbandonate a se stesse e, più per i primi ma anche per le seconde, sia necessario indebitarsi fin oltre i 90 anni per chiedere onerosi prestiti per acquisire un titolo di studio che renda “competitivi” sul “mercato del lavoro”.
Insomma, lungi dall’essere un’opzione di civismo – ossia la visione di una società altamente istruita nella sua larghissima parte e dunque in grado di discutere e impegnarsi nella Cosa Pubblica – è un’opzione di oligarchia caratterizzata dal privilegio di censo e non di talento.
In vista delle elezioni politiche del 25 settembre si fa dunque molto parlare di come arginare gli estremismi. Sebbene questo abbia molto a che fare con la ricostruzione di un dibattito pubblico autenticamente centrato sulle policies – politiche in grado di combattere le diseguaglianze, il cambiamento climatico, le discriminazioni – l’agenda delle forze progressiste che temono per le sorti della democrazia non può che essere innanzitutto un’agenda incentrata sul livello della “politica-politics”.
Ovverosia, sul livello del cambio strutturale delle regole di gestione del potere nel Paese: rifinanziando i partiti, cambiando e costituzionalizzando la legge elettorale, proponendo riforme ambiziose nel senso della democrazia economica sui luoghi di lavoro, vivificando il terzo settore e premiando tutte le forme di organizzazioni ibride.
Questa agenda incontrerebbe il favore non solo di un mondo progressista in cerca di rappresentanza politica di interessi sociali ma anche del mondo Cattolico impegnato nell’accoglienza, nella cultura, nella sussidiarietà. Incontrerebbe anche il favore di tutti coloro che hanno a cuore il rispetto del dettato Costituzionale nei suoi articoli fondamentali.
Insomma, se un’agenda di unità nazionale deve esserci, questa non può che essere l’agenda dell’applicazione del secondo comma dell’articolo 3, laddove si menziona il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli non solo di ordine materiale ma anche quelli che impediscono la concreta e attiva partecipazione alla determinazione collettiva dei destini del Paese e delle persone.
Isolando gli estremismi di centro, questo consentirebbe di iniziare un lavoro, di medio periodo, di risintonizzazione della politica con gli umori di un Paese scosso da crisi pandemica ed economica nel quale la marginalizzazione della classe media continua inarrestata. Tutt’altro che un’agenda Draghi, fondata sulla personalizzazione, dovrebbe essere un’agenda riformatrice capace di appianare le distanze tra rappresentanza e società. Un’agenda Lelio Basso, se così si può dire.