Università degli Studi di Genova

In Italia la quota di giovani fra i 18 e i 29 anni a rischio povertà ed esclusione sociale è ben al di sopra della media europea. Il Paese ha anche il record di NEET, ovvero giovani che non studiano e non lavorano. È questo il contesto in cui si inserisce la scelta della BCE di un’imminente stretta monetaria

Dopo 11 anni, la Banca Centrale Europea (BCE) alzerà i tassi di interesse, rispettivamente di 25 punti percentuali a luglio e, se i prezzi non si raffredderanno, di ulteriori 50 punti percentuali a settembre. È finita la lunga fase caratterizzata dal costo del denaro molto basso (praticamente a zero) e dai consistenti acquisti di titoli di stato (il quantitative easing). Questa notizia arriva dopo mesi in cui l’inflazione, sia in Europa sia negli Stati Uniti, ha continuato a crescere. Se un anno fa l’inflazione media annua dell’area euro si attestava attorno al 2%, ad aprile 2022 era al 7,4%, per arrivare a maggioall’8,1%.

 

Anche gli Stati Uniti evidenziano livelli di inflazione simili, seppur per motivi diversi rispetto all’Europa (eccesso di domanda), e la FED, nei giorni scorsi, ha deciso per un rialzo dei tassi che non era così aggressivo dal novembre 1994. Le intenzioni dei governatori sul futuro andamento dei tassi indicano una stretta ancora più incisiva che andrà avanti quantomeno per tutto il 2022. Anche le azioni della Banca d’Inghilterra si muovono nella medesima direzione.

 

Questi dati e la potenza delle risposte delle banche centrali ci descrivono in maniera chiara e inequivocabile venti inflazionistici che in Europa non spiravano così forti dal periodo a cavallo tra anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. In quegli anni non era ancora nata la maggior parte dei cosiddetti “Millennials”, ovvero la generazione dei nati fra l’inizio degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta. E non erano nati neppure i giovani della “generazione Z”, termine con il quale ci si riferisce ai nati dopo il 2000.

 

Ma facciamo qualche passo indietro. Prima che l’inflazione precipitasse nuovamente (non è di certo la prima volta nella storia), al centro delle nostre preoccupazioni c’era un altro fenomeno che angosciava e che continua tutt’oggi a essere dirimente: la povertà.

 

Se si guarda al fenomeno della povertà in Italia negli ultimi quindici anni, ci si accorge subito che la quota di popolazione in povertà assoluta, e dunque senza possibilità di soddisfare i fabbisogni essenziali, come l’accesso a un’alimentazione equilibrata e la disponibilità di abitazione, sia progressivamente cresciuta, sostanzialmente senza soluzione di continuità, a seguito della crisi finanziaria prima, ed economica poi, iniziata negli Stati Uniti nel 2008. Sono rimaste fortemente impresse nell’immaginario collettivo le immagini dei manager di Lehman Brothers che lasciano i loro uffici di New York imbracciando i cartoni contenenti i loro effetti personali.

 

L’asintoto superiore nella dinamica della povertà nel nostro Paese è segnato dai nuovi dati dell’Istat, pubblicati a metà giugno, proprio nei giorni in cui la BCE e la FED comunicavano le loro mosse per arginare l’inflazione. Questi dati fotografano un 2021 con più di 1,9 milioni di famiglie in povertà assoluta, ovvero circa 5,6 milioni di individui (9,4% della popolazione). Se guardiamo alle classi di età, l’incidenza della povertà assoluta si assesta al 14,2% fra i minori, all’11,1% fra i giovani tra i 18 e 34 anni, al 9,1% per la fascia 35 – 64 anni e al 5,3% per gli over 65.

 

Questi dati evidenziano come la povertà sia diventata una questione che riguarda soprattutto i giovani e i giovanissimi. Anche i dati Eurostat vanno nella stessa direzione, indicando come in Italia la quota di giovani fra i 18 e i 29 anni a rischio povertà ed esclusione sociale sia pari al 29,9%, contro una media dei Paesi dell’area euro di poco superiore al 25% (Eurostat 2020).

 

Se anziché guardare alla povertà volgiamo lo sguardo all’ancora più ampia questione della disuguaglianza, ci accorgiamo di come negli ultimi 30 anni in Italia ci sia stato un incessante aumento della disuguaglianza di reddito e di patrimonio che è diventato via via più insopportabile. Disuguaglianze odiose a tal punto che l’Onu negli ultimi anni ha inserito per la prima volta fra gli obiettivi di sviluppo sostenibile al 2030 la riduzione delle disuguaglianze interne ai Paesi avanzati. Semplificando, potremmo dire che nel nostro Paese la classe media si è trovata schiacciata in un mercato del lavoro asfittico sempre più polarizzato fra lavori super pagati e “lavoretti”. E, ancora una volta, coloro che ci hanno rimesso di più sono stati i giovani.

 

Nel 2021 la disoccupazione giovanile nella fascia di età 18-29 anni ha raggiunto livelli superiori al 25%, con picchi ben più alti nei territori più svantaggiati; l’Italia si è così guadagnata il poco ambito scettro di Paese europeo con il più alto numero di NEET, ovvero giovani che non studiano e non lavorano (3 milioni).

 

Il mondo del lavoro è diventato sempre più flessibile e precario, i prezzi degli alloggi sono cresciuti sempre di più, soprattutto nelle grandi città, dove sono diventati insostenibili. La notizia dei giorni scorsi relativa alle dimissioni dei lavoratori Atm a Milano nei 3 anni successivi all’assunzione, che riguardano un terzo dei neo assunti, è indicativa del costo irragionevole che la casa e la vita hanno raggiunto. La carenza di cancellieri e più in generale di organico al tribunale di Milano va nella stessa direzione. Perché queste dinamiche di povertà e disuguaglianza riguardano sempre di più i giovani?

 

Come sottolineato nelle analisi del Rapporto Giovani e nell’analisi di Migliavacca e Ranci (2011), i giovani sono deboli in quanto si trovano a vivere con redditi mediamente più bassi e con lavori spesso intermittenti, a differenza delle generazioni più âgée che possono invece contare su un risparmio maggiore, su lavori mediamente più stabili e sulla continuità reddituale garantita dalla pensione.

 

Infatti, i giovani sono sovra rappresentati nella categoria dei lavoratori a tempo determinato, degli autonomi, degli stagionali, dei lavoratori “in nero”, oltre che ovviamente (per ragioni anagrafiche) dei tirocinanti, degli stagisti o di coloro in cerca di prima occupazione. Insomma, nel mercato del lavoro duale italiano, che evidenzia grandi disparità fra vecchi e nuovi assunti, la maggior parte dei giovani si situa nella parte debole. Di conseguenza, sono soprattutto loro ad aver perso il posto di lavoro durante i periodi di crisi, rispetto ai lavoratori più protetti (incumbent).

 

E questo ha anche delle implicazioni di merito: gli imprenditori, se devono licenziare, non lo fanno in base alla produttività del singolo lavoratore, ma piuttosto in base alla maggiore o minore protezione dei lavoratori e, dunque, per mere ragioni di natura giuridico-economica. È probabile che questo abbia giocato anche un ruolo nel determinare la bassa produttività che da anni caratterizza il nostro Paese, oltre che la scarsa presenza di competenze tecnologiche e digitali che riguarda sia il settore pubblico sia quello privato.

 

Quindi è semplice capire come i giovani siano già stati fortemente colpiti sia in termini materiali sia in termini di opportunità dalla dinamica della povertà e della disuguaglianza, ovvero dalla crisi economico-finanziaria e dalla più grande pandemia della storia recente.

 

Ancora, non possiamo trascurare i problemi affrontati dai giovanissimi durante la pandemia: l’istruzione a distanza ha esacerbato vecchie e irrisolte fratture, e ce lo ricordano i dati Svimez (2020), i quali ci restituiscono una realtà dove i ragazzi fra i 6 ed i 17 anni che vivevano nel 2019 in famiglie senza disponibilità di strumentazione informatiche era pari a 1 su 14 al Nord, a 1 su 5 al Centro e a 1 su 3 al Sud in famiglie in cui i genitori avevano un livello massimo di istruzione inferiore alla scuola superiore.

 

Questo fenomeno, sommato alle condizioni abitative e alla mancanza di connessione veloce, non è privo di strascichi tanto psicologici quanto relativi alle difficoltà che si sono venute a creare nel raggiungere competenze minime e necessarie. Questa situazione crea dei gap difficili da colmare e recuperare e, nella maggior parte dei casi, si trasforma in minori opportunità per gli adulti di domani. Oltre all’aumento della dispersione scolastica evidenziato negli ultimi anni, i dati Invalsi 2020-2021 relativi agli studenti mostrano come a livello nazionale il 15% fra coloro che finiscono la terza media non ha le competenze per leggere e comprendere un testo. Per quanto riguarda la scuola secondaria di secondo grado, il 44% degli studenti all’ultimo anno delle superiori non ha raggiunto “risultati adeguati” in italiano, addirittura il 51% in matematica.

 

Un report pre-pandemia di Demopolis per Oxfam riportava come 8 giovani intervistati su 10 già prospettassero per loro un tenore di vita e una posizione economica e sociale peggiore rispetto a quella delle generazioni precedenti. È chiaro che la pandemia prima e la guerra in Ucraina poi non possano che aver peggiorato ulteriormente questo dato che evidenzia una visione rinunciataria dei giovani rispetto al futuro.

 

È in questo contesto già particolarmente indigesto che arriva la notizia di aumento dell’inflazione e del conseguente rialzo dei tassi di interesse da parte della BCE. Se da un lato tale risposta appare condivisibile, ovvero obbligata (nel merito, non nel metodo), d’altro lato una domanda sorge spontanea: il ripiombare dell’Inflazione in Europa e in Italia colpisce tutti allo stesso modo? Che conseguenze ha per i giovani?

Leggi anche l’articolo successivo del ciclo: Inflazione e generazioni: i giovani scoprono (a loro spese) l’inflazione. Quali conseguenze?

 

Fotografia: Jason Goodman
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