Una determinata narrazione ci fa dare per scontato che la Storia sia fatta dai maschi e che le donne abbiano vissuto per millenni un passo indietro. Una narrazione così efficace che fino a poco tempo fa pensavamo che questo fosse normale e inevitabile. Per questo dobbiamo ridare spazio ai “secondi sessi” nelle nostre narrazioni
Recentemente, ho scritto sul mio profilo Facebook questo post: “Il patriarcato sta nelle piccole cose. Ad esempio, nel ritenere di avere il diritto di spiegare alle persone militanti di quali benaltre® istanze dovrebbero occuparsi”.
Lo ammetto: ho un talento per stirring the shit, come direbbero i miei amici anglofoni. Ma la riflessione non è estemporanea: arriva a monte di una serie di incontri molto belli ai quali ho avuto modo – e fortuna – di partecipare: dalla lectio di Paul B. Preciado al festival queer Sherocco, nei pressi di Ostuni, a un bellissimo incontro organizzato a Roma dal Museo delle Periferie e dal Goethe Institut per parlare di mappe costruite “dal basso”, oltre la logica del profitto, a una chiacchierata con la filosofa Chiara Bottici e Daniela Brogi, docente di Letteratura italiana contemporanea.
Tutti questi incontri, a modo loro, parlavano dello stesso argomento: lo spazio sociale, linguistico, letterario, mitologico, fisico non è equamente distribuito tra le persone.
Ci sono alcune soggettività umane che prevaricano a livello sociale, linguistico, letterario, mitologico e fisico, mentre molte altre soggettività vengono schiacciate, poste ai margini, invisibilizzate, messe nel recinto degli “altri”, degli strani, di quelli sbagliati e divergenti.
La rivendicazione comune dei discorsi fatti in questi tre incroci di menti e competenze era: bisogna ripensare lo spazio in tutte le sue accezioni. Bisogna far sì che esso venga distribuito in maniera più equa. Occorre uscire da un’ottica di normalizzazione della prevaricazione; soprattutto, è necessario mettere in discussione i propri privilegi. In sintesi, tutto quello che non funziona può venir fatto derivare da una mentalità di tipo patriarcale (Chiara Bottici va oltre e conia il termine “uomocrazia”): tradizionalista, separatista, basata sulla performatività, sul rafforzamento del concetto di “normale” in opposizione a “diverso” e sull’idea che esistano esseri umani più valevoli di altri.
Per quanto al vertice di questa piramide del privilegio possiamo ancora porre i maschi occidentali, prevalentemente bianchi, eterosessuali e cisgender, benestanti, eccetera, al sistema partecipiamo un po’ tutti, più o meno inconsciamente, per esempio dando per scontate certe dinamiche, oppure ritenendo “naturali” determinati privilegi, come ci spiega Sarah Schulman nel suo potentissimo libro The gentrification of mind (The gentrification of the mind. Witness to a lost imagination, University of California Press, Berkeley, 2012, p.167):
“In order to transform the structures, we who benefit from them would have to accept that our privileges are enforced, not earned. And that others, who are currently created as inferior, just simply lack the lifelong process of false inflation and its concrete material consequence. Facing this would mean altering our sense of self from deservingly superior to inflated. That would be uncomfortable. […] Being uncomfortable or asking others to be uncomfortable is practically considered antisocial because the revelation of truth is tremendously dangerous to supremacy. As a result, we have a society in which the happiness of the privileged is based on never starting the process towards becoming accountable”.
Una cosa a lungo data per “naturale” è la prevalenza maschile nel mondo attorno a noi: sono maschili le statue, i nomi delle vie e delle piazze, degli aeroporti e degli ospedali (tranne l’occasionale santa); la filosofia è feudo maschile, ma lo sono anche la scienza, la letteratura, la medicina; lo sono i dataset che servono per le traduzioni automatiche e il design degli oggetti che ci circondano: predelle troppo alte per le persone fisicamente più minute, cellulari troppo grossi per mani femminili. Sono maschili i protagonisti dei trial medici, come pure, fino a tempi recenti, i crash test dummy usati nelle simulazioni di incidenti dalle case automobilistiche. Consideriamo normale, per una persona dotata di fallo, sedere a gambe larghe sui mezzi pubblici; normalizziamo il catcalling o pappagallismo, come pure che siano uomini a dire alle donne come quando, perché e in che modo dovrebbero lottare per la parità di genere (assolutamente non denudandosi, non “mercificando il corpo”, come ha avuto recentemente da dire un signore che da anni usa i propri figli come grancassa mediatica, di fatto… mercificandoli).
Diamo per scontato che la storia sia stata fatta dai maschi, e che le donne davvero abbiano vissuto per millenni un passo indietro. Non solo lo diamo per scontato, ma fino a tempi recenti lo consideravamo anche “normale” e inevitabile.
Ma non è un caso se negli anni Settanta un gruppo di storiche statunitensi decise di coniare il termine herstory: sapevano benissimo che il his di history non ha a che fare con “di lui”, ciononostante la parola inventata serviva loro in una chiave performativa, per far vedere la possibilità di una storia diversa, di una rilettura di dati storici dati, per l’appunto, a lungo dati per scontati.
La storia è essenziale, in un processo di ridefinizione socioculturale. Non si tratta di scendere in piazza per reclamare diritti, quanto piuttosto di creare nuovi spazi e di consolidare la presenza dei “secondi sessi”, come li definisce ancora Bottici, anche in una prospettiva diacronica. Abbiamo bisogno di rinarrare la storia per capire come siamo arrivati alla situazione attuale, ma anche come possiamo uscirne. E questo comporta, forse per la prima volta nell’evoluzione della nostra specie, di prendere davvero atto di una serie infinita di privilegi, di storture, di oppressioni che, da una determinata angolazione, sono sempre state difficili da vedere. Ristudiare, rideterminare la storia per avere uno sguardo più fermo, più aperto e più laico sul presente e sul futuro.