Piazza Statuto: gli scontri del 7 luglio 1962, la Fiom e la Fim proclamano uno sciopero di tutti i metalmeccanici torinesi a sostegno della lotta alla Fiat, iniziata a giugno.

Di cosa stiamo parlando?

Lo sciopero riesce in pieno. Nel corso della mattinata si sparge la voce che la Uil e la Sida, il sindacato “giallo” padronale, hanno raggiunto un accordo separato con la direzione Fiat. Oltre seimila operai, esasperati da questa notizia, si riuniscono nel pomeriggio in piazza Statuto, di fronte alla sede della Uil. Per due giorni la piazza è teatro di scontri tra dimostranti e polizia: i primi, armati di fionde, bastoni e catene, rompono vetrine e finestre, erigono rudimentali barricate, caricano più volte i cordoni della polizia; la seconda risponde caricando le folle con le jeep, soffocando la piazza con gas lacrimogeni, e picchiando i dimostranti con i calci dei fucili. Mille dimostranti sono arrestati e parecchi denunciati. La maggior parte sono giovani operai, per lo più meridionali.

Il Pci è colto di sorpresa da questa radicalità che non riesce a controllare. “L’Unità” del 9 luglio definisce gli scontri «tentativi teppistici e provocatori», e i manifestanti «elementi incontrollati ed esasperati», «piccoli gruppi di irresponsabili», «giovani scalmanati», «anarchici, internazionalisti». Il gruppo de «I Quaderni Rossi» (Panzieri, Tronti, Negri) si divide: da una parte Raniero Panzieri giudica gli scontri di piazza una «squallida degenerazione» di una manifestazione di protesta operaia, pur non classificando i manifestanti come «provocatori e fascisti»; dall’altra Mario Tronti che, invece, guarda a ciò che si è visto in piazza come una novità.

Due gli elementi su cui insiste: in quella piazza si è manifestato il malessere che coabita con il «boom economico»; il soggetto che ha occupato il centro della scena è diverso (per certi aspetti anche estraneo) dall’operaio degli anni ’50.

Seguendo le stesse domande Goffredo Fofi pubblica sul numero di luglio de “Il Ponte”, pochi giorni dopo quegli avvenimenti, Immigrati a Torino. Quel saggio è la prima sintesi della monografia L’immigrazione meridionale a Torino che Goffredo Fofi pubblicherà nel 1964 con Feltrinelli, dopo il rifiuto di pubblicarla da parte di Einaudi.

L’insurrezione di piazza Statuto segna per la prima volta l’emergere nella lotta di classe dell’«operaio-massa», come risulterà al processo dove due terzi degli imputati per le violenze di strada saranno giovani immigrati meridionali.

Gli avvenimenti di quel 7 luglio 1962 lanciano quindi un doppio segnalela piazza è il luogo in cui far emergere un nuovo attore sociale; l’operaio-massa è nuovo attore anche perché a) rompe le regole del contratto sociale all’interno del quale sono state regolate sia la lotta sia le diverse forme di lotta; b) non è stato considerato da quelle stesse forme di lotta.

Riflettere su quella data significa prendere in carico questo doppio passaggio. Un doppio passaggio che ha caratteristiche del conflitto sociale e insiste meno su contenuti tradizionali di piattaforma politica o sindacale. Non è un dato eccezionale nel corso degli ultimi decenni, anche a fronte dell’emersione di nuove soggettività del lavoro, come raccontano Francesca Coin e Niccolò Cuppini.

Un caso isolato?

Come sottolinea Elia Zaru, forse ci può essere di aiuto sviluppare un confronto con altre scene non meno sorprendenti e divisive di quella del luglio 1962 ed espressive del deficit culturale, politico e programmatico delle agenzie che si intestano la rappresentanza politica e sociale non tanto e non solo degli «ultimi», quanto degli svantaggiati o dei «marginali».

Parigi ottobre 2005. Il disagio, la violenza delle banlieue diventa espressione ed emersione di un problema non governato, non messo in agenda e dunque, anche per questo, «non previsto». Un tema e un’agenda che ancora, nel 2022 stanno in gran parte davanti a noi.

Quando nell’ottobre 2005 le strade notturne delle periferie di Parigi iniziano a illuminarsi dei fuochi che avvolgono i cassonetti l’origine è nella violenza e nella repressione. Ma presto quel tema cessa di essere solo un problema di ordine pubblico per diventare di agende politiche, di culture, di progetto.

In quei giorni, nelle periferie di Francia, si consumano molte illusioni.

Per alcuni, la rabbia che popola le notti inquiete e «illumina» le strade è il risultato di un malinteso «Stato assistenziale» che ha protetto i suoi disagiati, che in mezzo alla crisi paga il prezzo della sua impossibilità di garantirli ancora e dunque per questo subisce la rabbia di chi ha ritenuto che l’aiuto non ricevuto obbligasse a una risposta per fare in modo di uscire dall’ombra.

Per altri, ciò che va in onda in quelle settimane è la conseguenza di un Paese che non crede nell’espansione dell’Europa (il riferimento è al referendum confermativo respinto del trattato europeo di fine maggio), che assume una posizione nichilista, egoista di fronte all’allargamento verso Est, vissuto come una la sfida al proprio primato, e che si ritrova rimandato al mittente il suo stesso atteggiamento.

Forse nella rabbia notturna c’era tutto questo. Sicuramente c’erano allora (e continuano a esserci ora) dei territori perduti della Repubblica, di cui ci sono molti indicatori rimasti per anni inascoltati.

Nel 1995 un rapporto sulla condizione minorile nelle periferie francesi evidenziava già tutti i malesseri che dieci anni dopo esplodono in quelle notti illuminate:

  1. innalzamento della delinquenza minorile;
  2. violenza all’interno del mondo della scuola;
  3. violenza urbana;
  4. diffusione dell’uso degli stupefacenti;
  5. senso complessivo di insicurezza;
  6. assenza di prospettive.

In quel rapporto si metteva in guardia anche da un doppio fenomeno conseguente alla condizione di incertezza: insorgenza della islamizzazione delle periferie; crescita del fenomeno lepenista. Nelle periferie del terzo anello contigue a quei quartieri cresceva la solitudine dei “beurs”, i nipoti della grande ondata maghrebina degli anni ’50 che non vedevano un futuro davanti a loro. Nei quartieri operai, un tempo roccaforti tradizionali della sinistra, il voto operaio andava verso Jean-Marie Le Pen.

Tuttavia, la solitudine della globalizzazione non riguarda solo loro. Quella che scende in piazza al calar della notte non è solo la Francia dell’emancipazione mancata: è la Francia della deindustrializzazione e della crescita mitterandiana.

In altre parole, ciò che va in onda a Parigi e nelle periferie di Francia nelle notti dell’autunno 2005 è il nuovo malessere europeo postindustriale con cui ancora dobbiamo fare i conti oggi nel 2022 e che spiega anche una parte rilevante dell’agenda politica della Francia all’inizio del secondo mandato di Emmanuel Macron.

E l’America…

Ma questa scena non è meno sorprendente o meno inquieta di quella che popola le molte strade dei molti luoghi del disagio dell’America oggi: quella delle periferie industriali, quelle del malessere del profondo Sud.

In mezzo, quel malessere esplode con atti di violenza talora subiti, talaltra provocati.

Sono le tappe della nostra memoria recente che passano attraverso i luoghi, e che sono diventate particolarmente incandescenti a partire dal febbraio 2018, quando Emma Gonzales, sopravvissuta alla sparatoria nella scuola superiore di Parkland il 14 febbraio in Florida in cui Nikolas Cruz ha ucciso 17 persone, ha preso la parola: la prima preoccupazione era riprendersi in mano il futuro senza lasciarlo al caso di qualcuno armato di pistola.

In quel suo intervento di undici minuti, [qui la versione audio-video completa del suo intervento] letto velocemente, fino a mangiarsi le parole, senza nessuna retorica oratoria e istrionica – costantemente interrotto dai singhiozzi, come tutti coloro che sanno che è la loro unica occasione di parola e che il potere mediatico non ti concede una seconda chance –, Emma Gonzales si rivolge al Presidente degli Stati Uniti e «da pari a pari», scandisce queste parole:

«Se il Presidente vuole venire qui da me per dirmi in faccia che è stata una tragedia terribile, che non sarebbe mai dovuta accadere, e continuare a ripeterci che nulla verrà fatto al riguardo, gli domanderò con immenso piacere quanti soldi ha ricevuto dalla National Rifle Association. La volete sapere una cosa? Lo so già. Trenta milioni di dollari. Che divisi per il numero delle vittime da armi da fuoco negli Stati Uniti solo nel primo mese e mezzo del 2018, fanno 5.800 dollari ciascuna».

Poi gli chiede direttamente: “È questo il valore che quelle persone hanno per te, Trump?”.

Una nuova generazione ci mette la faccia in prima persona e torna a fare proprio l’imperativo di cinquanta anni prima: «sei quello che fai» e ti giudico per ciò che fai, non per ciò che dici di essere. Sono le parole della generazione che si affaccia alla storia poco dopo la metà del Novecento e che è la protagonista, culturale, prima ancora che sociale, del ‘68.

Ma insieme quattro anni dopo dovremmo anche inserire in quella domanda quelli che il 6 gennaio 2021 si presentano davanti a Capitol Hill con intenti, simpatie e immaginari opposti.

Se si facesse un atlante dei luoghi di stragi e di violenza degli Stati Uniti nell’ultimo decennio ne uscirebbe una mappa interessante delle zone abbandonate o non curate, della frustrazione e della rabbia che attraversano le strade dell’America.

Forse si potrebbe capire qualcosa dell’etica del giustiziere che morde quella realtà, senza dimenticare che in molti luoghi del mondo avviene lo stesso fenomeno (e dunque che non è un’esclusiva americana quella della strage di massa nei luoghi affollati) in cui improvvisamente qualcuno si presenta sulla scena, fa un gesto e immediatamente siamo lì a chiederci come sia stato possibile, da dove nasceva quella rabbia, dove stava quel sentimento? da che cosa si originasse?

Qualcuno ricorda Utøya, 22 luglio 2011? Dopo l’attentato, e durante il processo che ne è seguito, tutto il mondo ha iniziato a porsi delle domande. Come è potuto accadere? Perché è accaduto? E chi è Anders Breivik?

Utøya ci aiuta a studiare il passato, osservare il presente, immaginare il futuro.

Per capire i fenomeni sociali non bisogna mai perdere di vista il disagio o il senso di smarrimento, la solitudine. Ovvero tornare a interrogare periodicamente – ma meglio se costantemente – che cosa accade nelle periferie. Perché il disagio delle periferie, più generalmente la rabbia degli «ultimi», parla «a noi» e «di noi».

Per capirne di più