di Giorgio Bozzo
Giornalista e autore del podcast "Le Radici dell'Orgoglio"

Come tutti i diritti, l’estensione e il rafforzamento del congedo parentale è una lotta che dovrebbe chiamare in causa anche chi non vuole beneficiarne. I traguardi raggiunti in campo sociale non sono solo una conquista di chi li reclama, ma dell’intera società.


Nella giornata in cui si celebra l’orgoglio della comunità LGBTQI+, io, maschio, cinquantottenne, omosessuale, ho accettato l’invito a occuparmi del valore e del significato sociale delle nuove norme sul congedo parentale, argomento che, va da sé, all’apparenza mi tocca davvero poco da vicino.

Il 22 giugno scorso, il governo, con l’approvazione di un decreto legislativo, ha recepito una direttiva UE del 2019 con cui si chiedeva agli Stati membri di rafforzare il diritto dei lavoratori impegnati in compiti di cura in qualità di genitori e/o di prestatori di assistenza (i cosiddetti caregiver).

Lo scopo è quello di riequilibrare in modo equo le responsabilità tra uomini e donne e di promuovere la parità di genere non solo in ambito lavorativo, ma anche familiare.

Per inciso, il congedo parentale per un neo papà da oggi sarà di 10 giorni lavorativi obbligatori, che sarà possibile richiedere nei due mesi precedenti o nei cinque mesi successivi la nascita e, se necessario, contemporaneamente al congedo della consorte o della compagna.

Inutile enfatizzare: si tratta appena di un piccolo passo verso un’emancipazione di ruoli, che fino a qualche tempo fa erano rigidi e preimpostati nell’educazione di bambine e bambini sin dalla tenera età: i papà vanno al lavoro, mentre le mamme si occupano della prole, oltre che della casa, di cui, con perfida ipocrisia, vengono considerate le regine.

Le battaglie contro questa antiquata visione della vita familiare vengono combattute ormai da vari decenni, ma non stupiamoci di vederla ogni tanto fare ancora capolino e riaffiorare nei testi scolastici dei primi ordini di studio.

Le brutte abitudini, così come i pregiudizi, ci impiegano molto a scomparire. Chi si occupa di diritti sa bene che questi hanno sempre a che vedere con l’assunzione di responsabilità da parte di chi li reclama, ed è proprio questo rapporto che li rende effettivamente tali e non rivendicazioni di carattere individuale o di mera natura egoistica. Un padre  (o una madre) che si occupa con impegno di suo figlio o di sua figlia non svolge solo il suo legittimo e atteso ruolo di genitore, ma contribuisce al benessere della sua famiglia e, con questo, a quello dell’intera società.

Quello che le persone intolleranti non comprendono è che i diritti non sono appannaggio solo di coloro che li reclamano, ma diventano patrimonio collettivo. Sempre.

Mi piace pensare che quando alla fine degli anni Sessanta le donne prima e gli omosessuali poco dopo hanno cominciato la loro lotta civile contro l’oppressione di una società rigidamente patriarcale e – come si diceva allora – fallocratica, a beneficiarne in seguito siano stati tutti, anche coloro che allora dimostravano fastidio o aperta ostilità verso queste rivendicazioni.

La liberazione dei sentimenti, dei desideri e della sessualità è oggi un bene collettivo, a cui tutti possono, se vogliono, accedere per vivere con maggiore serenità e benessere la propria esistenza.

I diritti civili risolvono situazioni di disagio, dolore, inadeguatezza, subordinazione, così come nevrosi e sofferenza psicologica. Battersi per essi significa lottare per una società più sana e libera da condizionamenti. Per questo il diritto di un padre e di una madre di accudire i propri figli è un diritto per cui sono pronto a battermi anche io, che per scelte di vita – e ormai ovvi motivi di età – non ho prole.

Oggi la comunità LGBTQI+ è molto orgogliosa delle proprie “famiglie arcobaleno”, una bellissima realtà sempre più visibile, eppure ancora poco o per nulla tutelata nel suo diritto di serena esistenza e di eguaglianza con le famiglie tradizionali.

Per fortuna, ciò che la politica non ha il coraggio di fare, oggi viene compensato dalla società civile: è del 2021 una sentenza del tribunale di Milano che ha dato soddisfazione a una “madre intenzionale” di una coppia omogenitoriale, che aveva denunciato per discriminazione il datore di lavoro che le negava il permesso parentale.

La recente sentenza della Corte suprema statunitense in materia di interruzione di gravidanza e l’affermazione di uno dei giudici che la compone che sia venuto il momento di rivedere la legislazione in materia di matrimonio egualitario dimostrano chiaramente che i diritti non sono conquiste irreversibili.

Se lo scopo che ci siamo prefissati è quello di mantenere in salute la nostra società, diventa importante porre in essere una profilassi fatta di attenzione e di difesa delle posizioni raggiunte, senza mai abbassare la guardia. Anzi, semmai alzando coraggiosamente l’asticella per ottenere ciò che ancora manca, indipendentemente da quanto ci riguardi da vicino.

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