La faglia tra alto e basso, tra comunità di cittadini e istituzioni. Il MeVe come caso di studio.
In una recente intervista[1] lo storico Giovanni De Luna ha ricordato come il centenario della Grande Guerra abbia rappresentato per la comunità internazionale degli storici un’occasione per mettere a punto nuove ricerche sulla condizione dei soldati in trincea. Lo spaccato dei vissuti fatto emergere dagli studi ha così restituito un’«immagine europea della guerra» in cui soldati di diversa nazionalità hanno condiviso trasversalmente i drammi imposti dal conflitto.
L’idea di una identità europea nata tra i colori universali del sangue e del fango è certamente presente nel DNA del MeVe – Memoriale Veneto della Grande Guerra[2], realtà museale inaugurata nel novembre del 2018 nel cuore della provincia veneta a conclusione dei progetti portati avanti dalla Regione Veneto durante gli anni del centenario. La struttura, nata come punto nodale di quella rete di luoghi della memoria che costella la linea del Piave, sposa una narrazione storica attenta alle relazioni tra il passato e il presente. In particolare i conflitti che hanno segnato la “Guerra civile europea” divengono spunto per un’azione culturale mirata all’educazione alla cittadinanza, in cui i modelli disfunzionali del passato divengono monito per la costruzione di un’identità europea capace di favorire la costruzione di società democratiche, pacifiche e stabili.
Il lavoro quotidiano svolto da questa realtà museale sul territorio e con le comunità locali permette di porre alcune domande critiche alla mission del museo e al più vasto discorso legato alla costruzione di un’identità comune europea che passa attraverso i luoghi della memoria, l’uso pubblico della storia e la costruzione di un calendario civile europeo.
La domanda “quale idea di Europa?” che anima molti dibattiti, anche in seno alla comunità degli storici, non solo rimane senza risposte ma appare spesso priva di senso se posta nel contesto di una provincia come quella trevigiana, che, pur con le sue peculiarità, di fatto non si presenta troppo diverso da molti altri.
L’Europa infatti risulta il più delle volte agli occhi dell’ “everyday man” una realtà calata dall’alto: arriva con leggi e regolamenti di cui raramente viene recepita la ratio, nelle scuole compare nei programmi obbligatori di educazione alla cittadinanza, è al centro di una giornata celebrativa – il 9 maggio – che vede sensibili pochi docenti e rare realtà associative locali, si esprime in base a finanziamenti spesi sul territorio attraverso progetti definiti senza fare ricorso a modalità partecipative, perché spesso i tempi dei bandi e le scadenze che essi impongono per la realizzazione delle opere non lo consentono. Il contatto con gli studenti rivela, nonostante gli sforzi compiuti dal mondo della scuola, frequenti lacune nella conoscenza di base delle istituzioni europee e in generale un atteggiamento tiepido, se non apertamente critico, nei confronti di ciò che riguarda l’Europa.
Anche dal punto di vista della narrazione storica le difficoltà incontrate nel raccontare l’Europa non sono poche (a prescindere dall’approccio scelto). L’idea di una umanità in guerra che soffre a prescindere dalle bandiere e dalle appartenenze è generalmente accettata e condivisa, ma recepita secondo una logica differente da quella declinata da De Luna: in trincea viene ribadito con il sangue il divario universale tra chi può prendere decisioni e chi no, tra classi popolari e istituzioni distanti e corrotte. La ricostruzione storica basata sulla ricerca inoltre si deve confrontare con un pulviscolo composito, quanto esteso, di narrazioni alternative che rivendicano legittimità: sono quelle che afferiscono all’universo dei recuperanti, dei generici “appassionati” o delle associazioni reducistiche ed ex combattentistiche. Mondi per i quali non di rado l’autorevolezza degli studi viene considerata una “versione ufficiale dei fatti storici” piegata a esigenze politiche, incapace di confrontarsi con i loro punti di vista e, per tali motivi, da smentire e rifiutare a priori. Le ragioni di una ricezione così ostile richiederebbero una riflessione approfondita. Di certo essa è anche frutto della modalità escludente con cui le istituzioni si sono rapportate a realtà che, per svariati motivi, hanno da sempre, o a un certo punto del loro percorso, occupato posizioni collocate ai margini. Istituzioni che non hanno saputo spiegare e condividere le ragioni di alcune scelte, come per esempio la legislazione sul recupero e la detenzione di reperti bellici o di realtà, anche museali, che non sono state in grado di trovare nel tempo piani di dialogo capaci di lavorare sulla molteplicità e la complessità dei punti di vista sul passato. Anche sul piano delle attività di public history le nostre istituzioni museali non sempre conoscono le domande reali che provengono dalle comunità locali. Provano a intuirle agendo principalmente sul piano del coinvolgimento più che del fare e raccontare insieme, in attesa che si costruisca, anche dal punto di vista professionale del public historian, un bagaglio condiviso di buone pratiche su ciò che concerne la ricaduta dei processi partecipativi attivati.
Il “lavoro sul campo”, nonostante le difficoltà, suggerisce ancora una volta agli storici e alle istituzioni che praticano la public history una commistione di competenze. La necessità di collaborare, per esempio, non solo con chi può contribuire alla costruzione di una narrazione efficace e scientificamente solida del passato ma anche e con enti preposti all’ascolto del territorio (servizi sociali, biblioteche, realtà associative) e capaci di penetrare più a fondo nel cuore di comunità che potrebbero rivelarsi straordinariamente (e forse, per i meno abituati all’ascolto, inaspettatamente) ricettive.
[1] http://hl.museostorico.it/historylabmagazine/punti-di-vista/giovanni-de-luna-la-dittatura-degli-anniversari/
[2] https://www.memorialegrandeguerra.it/il-memoriale/