Giornalista

Da città simbolo della pandemia a Capitale italiana della Cultura 2023. Il percorso di ridefinizione degli spazi urbani di Bergamo nel segno dell’offerta culturale.


Pandemia, chiusura, cultura. Per quanto possa sembrare cacofonico, queste tre parole, insieme, in questo ordine esatto, descrivono Bergamo, la Bergamasca, i suoi ultimi due anni, i prossimi due e il cambio di prospettiva della città. 

I primi due termini hanno fra loro un legame immediato e basilare, estremamente comprensibile a chiunque abbia vissuto i mesi di confinamento dovuti all’emergenza sanitaria. Al contrario, la prima e la terza parola sembrano distanziate da un abisso di evocazioni e di intenti. Eppure, sempre a Bergamo, tra l’una e l’altra sono passati solo 144 giorni. Questo il tempo esatto fra il 23 febbraio 2020, giorno in cui viene chiuso il pronto soccorso dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo dando ufficialmente inizio all’epidemia in Italia, e il 16 luglio 2020 quando, per decreto, Bergamo e Brescia vengono investite, insieme, del riconoscimento di Capitale Italiana della Cultura 2023

In mezzo a un territorio che si chiude, che muore, dove persino le campane delle chiese e le sirene delle ambulanze vengono spente per evitare ulteriore angoscia a chi è in casa, la parola che a un tratto inizia a rimbalzare è «cultura». 

Da quando i muratori fanno cultura?

Stereotipo numero uno, volutamente forzato, anche se è inutile pensare che sia del tutto inopportuno. In una terra che ha trasformato in un vanto la vocazione di “tirar su” letteralmente le città, da qualche tempo è successo che la cultura è diventata un fatto terribilmente serio ed economicamente fondamentale. Brescia lo sapeva già, ma solo da poco la sorella minore si è resa conto di quanto sia bella. Glielo hanno sempre detto in famiglia, ma come gli adolescenti che sanno bene che la madre li vedrà sempre perfetti e per questo hanno bisogno dell’approvazione altrui per crederci veramente, la città aveva bisogno che questa conferma arrivasse da fuori. Così è successo, nelle vesti della compagnia low cost irlandese che nel 2003 ha cominciato a scaricare fra i confini della provincia decine e decine di turisti che, pensando di arrivare a Milano, scoprivano invece Bergamo e, piuttosto che arrabbiarsi, la trovavano “interessante”. 

Da quel momento in poi, sono seguiti anni di lavoro frenetico per trasformare l’aeroporto più vicino a Milano in una meta turistica vera e propria, degna di una notte in albergo, sperando di farle diventare due. Questo era lo stato dell’arte quando tutto si è fermato, e dopo meno di cinque mesi, ciò che è sembrato mancare di più, la strada su cui investire, è stata la cultura

Nessuna illusione, a permettere questo pensiero è, in primis, il tessuto produttivo di questa provincia. Non si può parlare della città senza il territorio che la circonda. Con i suoi 120 mila abitanti Bergamo è un “paesone” che, alle dimensioni di Milano appunto, ci arriva solo se conta tutti i 243 comuni che la circondano. Avendo chiaro questo rapporto si può comprendere meglio cosa si intende quando si parla di una delle province europee più produttive che, nonostante le ferite degli ultimi due anni di pandemia, si caratterizza per un costante brulichio di attività. Lo stesso fermento produttivo stava alimentando la cultura turistica, permettendo agli abitanti di prendere coscienza delle bellezze e delle opportunità del proprio territorio. Ora qualcosa è cambiato.

Per poter parlare di cultura e non semplicemente mostrarla, Bergamo deve produrre cultura, costruirla e alimentarla, avviando un’attività certamente complessa. 

Secondo pregiudizio. Una città, per quanto di medie dimensioni, non si accende in un giorno. Una nuova missione ha bisogno di spazi e iniziative che nascono con il tempo, perciò non si può affermare che la città non producesse cultura ben prima di questi fatti. Sappiamo che un evento catastrofico può accelerare un processo solo se i contributi “extra” che libera cadono in un cassetto già carico di progetti. Solo così ciò che è “embrionale” può essere alimentato con particolare accanimento, e Bergamo aveva già in sé questo germoglio. 

Ciò che è cambiato rispetto ai disegni originari sono i luoghi. Inizialmente, infatti, l’attenzione era nelle periferie, i quartieri lungo il confine posti sotto la lente di ingrandimento della “necessità rigenerativa” della città. Ma le nuove dinamiche lavorative del tele-lavoro e del lavoro agile (se le aziende saranno capaci di mantenerle e i dipendenti continueranno a chiederle) hanno mostrato che i quartieri più periferici, per rinascere, hanno bisogno soltanto di essere vissuti. È innegabile che ci sia un rapporto fra il tempo di permanenza delle persone in un luogo e la vita di quel luogo. Più aumentano le ore del giorno all’interno del quartiere, più cresce la domanda di servizi, favorendo la ripresa dell’offerta. Non un atto immediato ma possibile e, soprattutto, una richiesta che gli stessi esercenti stanno iniziando a fare, volendo sottolineare e valorizzare il loro ruolo di presidio del territorio più prossimo. Per questi luoghi la migliore rigenerazione passa dall’aumento dell’abitabilità

Al contrario, è il centro città il vero protagonista della desertificazione e cuore della necessità di rivalutazione della città. 

Se non l’attività produttiva, cosa gli permette di vivere? La cultura può essere una soluzione, soprattutto se non relegata a un atto sporadico, ma capace di diventare offerta costante. 

La cultura può anche fare rigenerazione e recuperare luoghi socialmente periferici? 

Sì, ma nessuno si deve illudere che il processo sia immediato. Dopo aver consegnato Città Alta ai turisti, Bergamo sta cercando di ridisegnare e di rendere piacevole anche la cosiddetta città bassa. Il centro e le sue vie, da sempre “spente” in contemporanea con la chiusura degli uffici, sono oggi oggetto di una riprogettazione, dopo che anche i negozi e i ristoranti se ne sono andati, svuotati di prospettive dal lockdown. Piazzale degli Alpini è sempre stato uno dei simboli di questi luoghi “bui”. Piazza dello spaccio, talmente prossima alla stazione dei treni e delle autolinee da diventare quartier generale del disagio e delle difficoltà. Innumerevoli interventi hanno cercato di ridisegnare quei meccanismi che la rendevano pericolosa, fino alla completa ristrutturazione della piazza che, per quanto nuova, resta una distesa pavimentata in una zona difficile. A un certo punto un bando l’ha transennata dando fiducia a chi ha proposto di trasformarla in un’area pronta a ospitare concerti e spettacoli

Il progetto NXT Station, oggi giunto al suo secondo anno dopo un primo periodo vissuto fra le regole delle limitazioni sanitarie, non ha risolto il problema, ma sta cercando di dare un nuovo volto a quella piazza pericolosamente prossima alle stazioni, ambiente cittadino aperto lungo il viale che più di altri luoghi ha descritto cosa significa, per un’attività commerciale, chiudere a causa della pandemia.

Quel progetto ha due obiettivi: il primo è trasformare un luogo “difficile” in un ambiente da vivere attraverso gli spettacoli e i concerti. 

La possibilità di questa trasformazione si è vista chiaramente il primo maggio 2022. Non esiste un luogo della città dove i bergamaschi vivano tradizionalmente la festa dei lavoratori. Semplicemente, si va fuori: in montagna, al lago, in uno spazio altro rispetto alla città. Con la complicità di un meteo incerto e attirati dalla musica, invece, per la prima volta la città ha avuto una piazza del primo maggio, costruendo un Piazzale degli Alpini popolato di famiglie e bambini che non la attraversavano frettolosamente ma la vivevano giocando, mentre i ragazzi, la sera, l’hanno resa il loro spazio per vivere la notte grazie al proseguire dei concerti. 

Il secondo obiettivo è quello di togliere le transenne. Difficile e sicuramente non immediato. I problemi di quell’area, che è da sempre luogo di aggregazione e di incontro delle marginalità, non sono scomparsi con la prima nota suonata sul palco. Togliere quelle transenne significa poter dichiarare sicuro l’ambiente e restituirlo a pieno alla città, ma per questo non basta la cultura, serve un sistema che vada oltre la definizione di spazi e obiettivi. Questa sarà la vera sfida: permettere che la luce accesa grazie al riconoscimento di Capitale della Cultura possa proseguire oltre il 2023 e diventare un vero e proprio generatore di possibilità.


Foto di copertina di Michele Ferrari.
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