Il massiccio piano di spesa pubblica approvato con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) non è stato accompagnato da un nuovo impianto regolatorio per l’organizzazione e il riequilibrio di interessi pubblici e privati che hanno come campo di battaglia le città. In Occidente le politiche urbanistiche pubbliche si sono affermate a seguito di eventi – le epidemie nelle città industriali inglesi a metà Ottocento, le guerre mondiali – che hanno legittimato l’intervento statale, con la legislazione nei settori prima dell’igiene pubblica e poi della casa, e la limitazione dei diritti di proprietà privati a favore dell’interesse collettivo. Ci si sarebbe potuti aspettare un simile cambio di paradigma oggi, dopo che la pandemia da Covid-19 ha mostrato tutti i limiti del sistema attuale, caratterizzato da un ritorno delle disuguaglianze. Le misure e i sostegni statali messi in moto per far fronte alla crisi ci hanno ricordato, di nuovo, quanto l’intervento pubblico sia fondamentale per l’economia e per la società. Questa evidenza non ha però modificato il paradigma neoliberista, così forte da annullare qualsiasi vero dibattito in Italia, di un mercato libero da vincoli e lacci statali – basta guardare alla resistenza feroce all’ipotesi di introduzione di un salario minimo – ma sostenuto all’occorrenza con finanziamenti e salvataggi pubblici.
Un esempio: fino a febbraio 2020 ad ogni timida proposta di regolamentare gli affitti brevi turistici, uno dei fenomeni più pervasivi negli ultimi anni, si sono levati cori indignati contro l’intromissione dello Stato in affari privati. Poi, con lo scoppio della pandemia, quello stesso coro è diventato una richiesta prepotente di aiuti statali, a favore di attività che hanno stravolto le città al di fuori di qualsiasi normale pianificazione.
Una politica schizofrenica
La stagione dei ristori e degli indennizzi si è aperta senza alcuna riflessione sulla sostenibilità di attività e modelli economici che questi tengono in vita. Ad agosto 2020 è stato ripartito un contributo a fondo perduto di 500 milioni di euro complessivi, voluto dal ministro Franceschini, per le attività commerciali nelle “città ad alta vocazione turistica”. Il contributo spettava alle attività nei centri storici di comuni che avevano registrato presenze di turisti stranieri pari o di almeno tre volte superiore a quello dei residenti. Venezia naturalmente era in cima alla classifica. Si è scelto, insomma, di puntellare proprio quei settori dell’economia urbana al centro della trasformazione delle città in parchi a tema turistici, che vivono di logiche di brevissimo termine, che impoveriscono e desertificano le città, e che sono all’origine del loro spopolamento. Poi, quando si tratta di guardare al fisco locale, i conti non tornano. Si scopre che Milano, la città che più di tutte ha puntato su un apparentemente più remunerativo modello di abitare temporaneo, è in cima alla classifica di indebitamento con quasi 3,6 miliardi di debito, ovvero 2.550 euro di passivo ad abitante. Nelle prime cinque posizioni troviamo anche Firenze e Venezia. “Il Sole 24 Ore” ci informa che “la gravità del debito dipende dal suo rapporto con le entrate strutturali più che con il numero di abitanti”, ma secondo il ministero dell’Interno c’è una relazione tra le procedure di dissesto e quelle di riequilibrio e il numero di abitanti: il 62% delle procedure di dissesto ha interessato comuni con popolazione residente compresa tra 1 e 4.999 abitanti. Sta di fatto che la riforma fiscale a cui sta lavorando il governo potrebbe portare all’aumento delle addizionali comunali e regionali dell’Irpef a carico dei cittadini. Una politica schizofrenica, come mi ha fatto notare Paola Somma, professoressa di urbanistica allo IUAV di Venezia e una delle penne più precise nel descrivere e svelare i meccanismi alla radice delle più recenti trasformazioni urbane.
Se le città sono sempre più modellate secondo l’imperativo della competitività turistica, a pagare sono i residenti.
Oltre gli indennizzi, dov’è la resilienza?
Nonostante l’evidenza, modelli economici obsoleti e insostenibili non solo non sono entrati in crisi ma si rafforzati con una pioggia di ristori, indennizzi e bonus. Dal bonus facciate al bonus mobili e televisore, al bonus tende da sole e zanzariere a quello per l’acquisto di auto, si sostengono settori come l’edilizia e l’industria automobilistica che non hanno saputo rinnovarsi. La logica degli indennizzi, come quelli previsti per gli operatori uscenti con la messa a bando delle concessioni balneari, lancia il messaggio che a fronte di eventi imprevedibili come una pandemia di fatto nessun adattamento o “transizione ecologica” è richiesta: lo Stato deve garantire il rischio d’impresa e se qualcosa proprio deve cambiare allora qualcuno deve pagare – e quel qualcuno siamo sempre noi, non chi fino a ieri ha privatizzato i guadagni realizzati a partire dallo sfruttamento intensivo di risorse collettive come le coste, i centri storici, le piazze e di monumenti delle città.
La logica degli indennizzi rivela che questo sistema economico è ben poco ‘resiliente’ se ogni singola trasformazione, non più rinviabile e dettata magari dal cambiamento climatico, dev’essere compensata con trasferimenti di fondi pubblici a favore di privati, spesso togliendo ai poveri per dare ai ricchi come nel caso del bonus 110 per cento che finanzia la ristrutturazione di edilizia privata – in Sardegna 4900 richieste di superbonus su 5300 approvate riguardano villette e seconde case al mare, secondo Report.
La ‘resilienza’, a quanto pare, è richiesta solo a chi costituisce l’ossatura su cui questo sistema economico si regge: una massa di lavoratori precari e sottopagati a cui si chiede continua flessibilità.
La diserzione di giovani da posti di lavoro malpagati, a fronte di affitti e costi insostenibili, è solo uno degli effetti dell’assenza di nuove visioni di lungo periodo per il futuro delle città. Un futuro in cui non è più possibile ragionare per compartimenti stagni, in cui le connessioni tra politiche fiscali, del lavoro, abitative, devono poter emergere ed essere oggetto di scelte precise e di lungo periodo. Altrimenti le subiremo, e le città rischieranno di ritrovarsi senza abitanti. La vivibilità delle città dipenderà da quanto saremo in grado di rovesciare il paradigma, restaurato con il Pnrr, di un’economia estrattiva e non produttiva, pigra e poco innovativa, fondata su rendite di posizione che alimentano disuguaglianze, su finanziamenti milionari puntiformi di grandi eventi e grandi attrattori turistici piuttosto che su infrastrutture e servizi pubblici per contrastare le disuguaglianze, sulla promozione di reti e tessuti locali, per puntare in alto a partire dal basso. Bisogna rovesciare il paradigma offrendo garanzie a coloro su cui si regge il funzionamento dell’economia fondamentale delle città, chiedendo flessibilità e resilienza a quei settori i cui impatti speculativi non sono più sostenibili.