In foto, Boris Pahor


Di Boris Pahor e di Carlo Smuraglia, mancati a poche ore di distanza uno dall’altro, ci restano libri, interviste, esperienze, testimonianze ma soprattutto un insegnamento e un monito:

non venire a compromessi con chi vorrebbe accomodare la realtà per continuare a vivere come prima.

Secondo percorsi propri e a partire da esperienze diverse, la loro riflessione pubblica si svolgeva su un terreno comune o su una piattaforma che possiamo riassumere sinteticamente intorno ai due canoni.

Il primo, che ha caratterizzato maggiormente Boris Pahor, risponde alla domanda: che cosa significa raccontare la storia? La sua risposta era semplice: raccontarla a parte intera. Ovvero senza tacere quei particolari che fanno male o che non concordano con la versione confortevole che il senso comune coltiva, anche quello vicino alla propria parte. Fino a includere i punti scabrosi o inquietanti, ma anche tutto ciò che nel percorso del tempo si è perduto.

Questo aspetto riguarda, tra gli altri, la questione dei confini, della cittadinanza culturale di una italianità che non è un distillato di una sola identità, ma un condensato di molte storie, di molti gruppi umani, culture, lingue.

Il secondo, che in gran parte ha espresso il tormento e il pungolo della parola civile di Carlo Smuraglia, risponde alla domanda: che ce ne facciamo della Costituzione? Ce ne facciamo qualcosa se la consideriamo come un progetto e non un oggetto. Lo aveva ripetuto nel 2019: uno dei problemi dell’Italia è che la Costituzione è «la meno attuata del mondo». Dal principio di libertà all’uguaglianza, dal lavoro alla solidarietà e all’etica, Smuraglia sosteneva che ciò di cui il nostro Paese ha bisogno è una seria attuazione delle disposizioni costituzionali e non la loro riforma. L’esatto opposto di quello che è un costante proposito che periodicamente torna sui tavoli della politica, ovvero che la Costituzione abbia fatto il suo tempo.

Una convinzione – quella di Smuraglia – che aveva come premessa quello che abbiamo indicato come primo canone: raccontare la storia tutta intera.

Ma farlo costa fatica, chiede di non mollare il colpo, di tornare a ripetere le cose con voce ferma, magari anche sommessa, ma non attoriale. Qualcosa che non è abituale per la politica, il compito degli intellettuali verso la politica: non accontentarsi dello slogan di comodo, magari pronunciato con una smorfia accattivante, ma imporre il confronto con la storia, con il bisogno bruciante di verità.

Condividi
pagina 128935\