“La guerra fa lo stato e lo stato fa la guerra”, ricorda Donald Sassoon citando lo storico statunitense Charles Tilly. Per Sassoon, tuttavia, Tilly avrebbe dovuto aggiungere che per fare tutte e due occorre la storia.
Con queste parole prende avvio il primo appuntamento dell’History Lab (24 maggio 2022): Le guerre, l’invenzione della tradizione e la Storia come strumento di guerra. Ad aprire l’incontro, assieme a Sassoon, si sono alternati Mario Ricciardi, Giulia Lami e Fulvio Cammarano; la riflessione si è poi estesa con i contributi di David Bidussa, Marcello Flores, Giandomenico Piluso, Bruno Cartosio, Guido Crainz, Riccardo Rossotto, Marco Soresina, Andrea Ruggeri, Daniela Saresella, Francesco Filippi e Antonella Salomoni.
Tre erano i temi racchiusi nel titolo di questo primo appuntamento e altrettanti i principali assi tematici seguiti nel corso della riflessione.
Partendo dalle origini, la domanda iniziale a cui si è cercato di dare risposta riguardava la natura stessa delle diverse idee di guerra (a che tipo di conflitti stiamo oggi assistendo?), ricordando così il ruolo di rilievo svolto dalle pretese nazionaliste all’interno di queste dinamiche. Si è poi ragionato sui legami tra passato e presente – sull’uso del passato e sull’“invenzione della tradizione”, per dirla con Eric Hobsbawm – come strategie di legittimazione nelle dinamiche conflittuali. Infine, uno spazio importante è stato dedicato al problema del “giorno dopo”: cosa rimarrà di questi conflitti? Qual è l’idea di Europa a cui vogliamo guardare e quali sono le premesse che gettiamo nel nostro presente per una prossima cittadinanza davvero europea? Da ultimo, qual è il ruolo della storia in questo complicato e tortuoso processo? In un presente così pervaso dalla guerra, quale è il conflitto russo-ucraino, si tratta di interrogativi che necessitano di risposte urgenti.
È specialmente attorno a questo conflitto “ai confini dell’Europa” che si è ragionato nel corso di questo appuntamento sulla “storia come strumento di guerra”: una guerra che passa anche per le parole, per i concetti e, dunque, per la propaganda. Sono parole che scavano solchi, che aumentano le distanze già tracciate dalla guerra fatta con le armi, descrivendo “l’altro” come qualcuno che – se non può essere assimilato – deve essere pertanto espulso o eliminato. Sono parole che divengono confini invalicabili quando ad essere impiegata come “ordigno ideologico” è la nazione – in questo orizzonte considerata fenomeno “naturale”, anziché espressione di un processo determinato storicamente e culturalmente.
Ciò che è emerso nel corso della riflessione, tuttavia, è che la storia può, anzi, è chiamata a essere strumento di guerra anche in chiave generativa, per disinnescare le premesse su cui si poggiano i conflitti e proiettare l’immagine di una comunità futura. In questo senso, il ragionamento storico può restituire complessità a un dibattito pubblico ormai schiacciato sul piano della geopolitica (come se essa potesse fare riferimento a forze predeterminate e astoriche) e su quello delle analogie storiche come unico strumento interpretativo (che portano ad una semplificazione del dibattito, alimentata dalla stampa nazionale e internazionale). Il ragionamento storico può dunque divenire un mezzo per restituire complessità analitica e per far fronte alla apparente diffusa incapacità di ragionare di “conflitto”. È questa un’incapacità che risulta peraltro indotta dalla reticenza a parlare di violenza nel contesto europeo dal 1945 in poi e che ha contribuito a sedimentare quell’immagine di Europa come “sacello di pace”, a fronte di una violenza invece facilmente esternalizzata e dislocata. Infine, restituire complessità a un discorso pubblico appiattito e semplificato significa inserire anche un elemento di distanziamento prospettico. In questo senso, per decostruire quella retorica ancorata sulla storia che tanto impatta nel nostro presente, è necessario includere nell’analisi anche gli Stati Uniti in quanto punto d’origine (spesso privilegiato) per la diffusione di una certa chiave di lettura del contesto europeo e delle sue problematiche.
La sfida che si presenta oggi alla storia è quella di applicare il proprio metodo non tanto (o non solo) per “correggere” interpretazioni errate del passato, bensì per porre nuove categorie interpretative adatte a leggere e comprendere il presente e cambiare così l’ottica con cui si descrivono i fenomeni contemporanei. Come ripensare, dunque, l’analisi dei conflitti contemporanei (in particolare di quello russo-ucraino) e i rapporti tra democrazie e dittature senza ricorrere esclusivamente alle analogie con la guerra fredda (ma nemmeno del post-guerra fredda) o all’antagonismo fascismo-antifascismo? E ancora, come risolvere la contraddizione intrinseca tra l’intangibilità delle frontiere e il diritto all’autodeterminazione? Come interrogarsi sui limiti e sulle possibilità del progetto europeo in un momento in cui i fuochi nazionalisti non accennano a spegnersi?
“Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per cominciare”.
È con queste parole del Vita activa di Hannah Arendt che David Bidussa chiude il cerchio della riflessione di questo primo incontro.
A conflitto ancora in corso, uno degli interrogativi più incalzanti riguarda proprio il chiedersi cosa accadrà nel “dopo”. Ciò significa pensare innanzitutto a quali possono essere gli effetti disgregativi di un conflitto, considerando che spesso riecheggiano in modo globale e asimmetrico, accrescendo così le disuguaglianze tra gruppi sociali. Sul piano della memoria, ciò significa anche interrogarsi sul calendario civile europeo per valutare se, proprio nel momento in cui l’idea stessa di Europa sembra essere messa in discussione, non sia invece necessario valutarne un aggiornamento e un rinnovamento, affinché anche le generazioni future abbiano l’opportunità di riconoscersi e ritrovarsi in questa idea comunitaria. Se l’obiettivo comune è quello della cooperazione e della costruzione di una comunità, è solo ragionare in questi termini che permette di pensare a soluzioni di politica adeguate ed efficaci, per evitare la disarticolazione delle istituzioni su cui si reggono le relazioni e i mercati internazionali.
L’esortazione conclusiva, dunque, è: vogliamo pensare in termini di “dopoguerra” o di “giorno dopo”? Vogliamo continuare a tenere al centro del ragionamento il conflitto e provare a ripristinare così la situazione a esso precedente, oppure vogliamo “cominciare” per generare un nuovo presente e, così, un nuovo futuro? Se la via che decidiamo di scegliere è la seconda, ecco che diviene necessario creare un nuovo linguaggio, pensare a nuove categorie interpretative e immaginare un “giorno dopo” anche attraverso il prisma della storia.