Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

“Il capitalismo ha il potere di plasmare la società e di agire come un potente catalizzatore di cambiamento”.

Così scriveva Larry Fink, presidente del fondo di investimento BlackRock, nella sua lettera annuale del 2022 agli amministratori delegati. Il discorso di Fink ruotava intorno al concetto del capitalismo dei portatori di interesse (stakeholder): imprese, dipendenti, clienti, fornitori e comunità. Fink suggeriva che il sistema economico dovrebbe essere più attento all’ambiente, alle richieste dei lavoratori e più in generale alla sostenibilità. Secondo l’uomo che Forbes nel 2018 classificò come la ventottesima persona più potente al mondo, è solo attraverso questa configurazione aperta che il capitalismo può dispiegare tutta la sua forza.

Il discorso del capo di BlackRock ha suscitato stupore nel mondo degli affari, ma in realtà non contiene nulla di nuovo. Come ha fatto notare Mariana Mazzucato su Project Syndicate, “abbiamo già sentito tutto questo, anche nelle lettere di Fink del 2018 e del 2019 e nella dichiarazione della Business Roundtable del 2019 guidata proprio da Fink”. Inoltre, quello di Fink è un “gioco di prestigio concettuale”, dato che il valore per i portatori di interesse diventa semplicemente un mezzo per raggiungere il solito fine del capitalismo: il profitto per gli azionisti.

Ma in un mondo che sprofonda in nuove povertà e vede acuirsi le disuguaglianze, questo modello sta mostrando tutti i suoi limiti.

È vero che la povertà estrema si sta riducendo a livello mondiale, ma il merito è soprattutto di alcuni Paesi asiatici e dei modelli di sviluppo da loro adottati, i quali non seguono certo le idee di Larry Fink (e sono a loro volta discutibili per molti versi).

In America Latina e in Africa, invece, la povertà continua ad aumentare, come si legge in un recente studio della Brookings Institution. In Nord America e in Europa crescono soprattutto le disuguaglianze. E mentre la pandemia uccideva o trascinava nell’insicurezza economica milioni di persone, le dieci persone più ricche al mondo vedevano raddoppiare la loro già enorme ricchezza.

Il capitalismo compassionevole di BlackRock non sembra essere un’alternativa davvero convincente al vecchio (e più schiettamente crudele) capitalismo. Alla fin fine, si tratta delle stesse dinamiche, anche se sotto le vesti più attraenti dello stakeholder capitalism.

Per sfuggire alle sirene ideologiche dei CEO può essere utile “seguire i soldi”. Un’operazione di follow the money ci svela che i fondi BlackRock, Vanguard e State Street sono i maggiori azionisti dell’88% delle società quotate sull’S&P 500 (il principale indice azionario statunitense). A fare i calcoli è stato uno studio del 2017 di alcuni ricercatori dell’Università di Amsterdam. Di fatto, queste tre società di gestione del risparmio concentrano nelle loro mani un potere enorme, gestendo asset complessivi per 20 trilioni di dollari, più di dieci volte il Pil dell’Italia.

I giganti del nostro capitalismo finanziario sempre più oligopolistico hanno interessi che si ramificano in tutte le attività economiche più redditizie, dai vaccini alle armi, dal gas alle piattaforme digitali, con impatti sulle vite di ciascuno di noi.

Nel gioco delle piattaforme, per esempio, siamo tutti immersi nella nostra vita quotidiana, quando forniamo dati gratuitamente ai social network, quando guardiamo un film su un servizio di streaming, quando ordiniamo un pasto a domicilio da un’app di consegne. Se da un lato le nuove tecnologie possono far emergere nuove possibilità di incontro e rendere più immediata la solidarietà (come nel caso degli aiuti alla popolazione ucraina travolta dalla guerra), dall’altro rischiano di replicare le logiche predatorie del capitalismo in una cornice inedita e potenzialmente senza confini. Dal ruolo sempre più rilevante di algoritmi impersonali che governano il lavoro, al fascino delle criptovalute che promettono facili guadagni, la strada verso una trasformazione digitale che metta al centro la persona umana è irta di ostacoli.

Nel frattempo i lavoratori in carne e ossa sono ancora vittime di sfruttamento, chiusure e delocalizzazioni, che accendono le rivendicazioni di chi si trova alienato e sfruttato: dai lavoratori di Amazon, che iniziano a sindacalizzarsi negli Stati Uniti, agli operai della ex Gkn di Campi Bisenzio, che hanno saputo costruire un’innovativa piattaforma di lotta collettiva. Proprio il Collettivo di Fabbrica Gkn reclama la necessità di un attore pubblico più incisivo e determinato nel promuovere lo sviluppo e il benessere collettivo, richiamando ai suoi doveri uno Stato che non può limitarsi a essere mero amministratore dei fondi del Pnrr.

Le nuove politiche industriali avviate dal Pnrr devono essere realizzate con una visione politica collettivamente discussa ed elaborata, a differenza di quanto è stato fatto negli ultimi trent’anni. Abbiamo anche bisogno di rinnovare la pubblica amministrazione, sottodimensionata e più anziana rispetto a molti altri Paesi europei.

Ma come finanzieremo lo sforzo pubblico necessario a smuovere il Paese dalle secche in cui si trova?

Per evitare l’incubo della stagflazione e affrontare la crisi delle risorse, è necessario che lo Stato orienti le sue politiche verso la costruzione di un nuovo paradigma economico, fuori da logiche neoliberali ormai inservibili, ma anche fuori dalla tentazione di un capitalismo di Stato conservatore e militarista. È urgente rendere di nuovo possibili coraggiose politiche fiscali, al fine di risvegliare le forze produttive del Paese e combattere le disuguaglianze. Le trattative con i partner europei non possono che abbandonare i pregiudizi verso la spesa pubblica che hanno accompagnato la crisi dell’euro e che ormai sono stati messi da parte anche da economisti liberisti come Francesco Giavazzi. Il consigliere del Presidente Mario Draghi ha stupito molti quando a fine 2021 ha affermato: “Se non hai un piano buono chiudi il rubinetto, se invece hai un buon progetto lo finanzi”.

La questione è dunque la seguente: quali progetti pubblici riteniamo giusto finanziare come collettività?

È su questa domanda che si giocherà la campagna elettorale verso le elezioni italiane del 2023. Infrastrutture, trasporti, sanità, scuola, bollette: questi sono solo alcuni dei dossier su cui sarebbe urgente investire per affrontare i bisogni delle famiglie italiane. Per non parlare delle politiche di sostegno diretto ai più vulnerabili, in un Paese in cui versano in povertà assoluta 5,6 milioni di abitanti (il 9,4% del totale).

Visti i tempi, tuttavia, non è escluso che prima o poi qualcuno arrivi a chiedere agli italiani: preferite il reddito di cittadinanza o un aumento delle spese per la Difesa? I continui attacchi e le campagne stampa contro quella timida misura di contrasto alla povertà che è il reddito di cittadinanza non ci permettono di escludere che questa provocazione si possa trasformare in realtà.

E se è vero che l’Italia è storicamente un laboratorio politico, gli occhi dell’Europa (e non solo) saranno puntati sul nostro Paese, per vedere quale direzione imprimeremo al Paese e, soprattutto, quale Stato e quale mercato vorremo costruire.

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