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Tracciare una mappa della destra radicale nell’Europa del 2022 non è un’impresa facile, per più di un motivo.
Un primo problema, in questo senso, è la fluidità dei confini che delimitano il raggio di applicabilità del concetto, variabile a seconda degli autori che lo impiegano (la formula, del resto, è nata negli Stati Uniti d’America negli anni Cinquanta del secolo scorso per definire le lunatic fringes ultraconservatrici di quel paese, dal Ku Klux Klan alla John Birch Society passando per il senatore McCarthy, ed è stata importata nel Vecchio Continente solo un paio di decenni più tardi da settori del neofascismo che erano alla ricerca di un’autodefinizione che li legasse meno strettamente alla matrice storica da cui provenivano). Nella letteratura scientifica, per non parlare di quella polemica o pamphlettistica, in quest’area sono infatti inclusi soggetti eterogenei, compresi all’interno di un arco che va dai gruppuscoli neonazisti ai partiti liberal-populisti, che gli avversari vorrebbero ricondurre ad una radice comune ma che, oltre a distinguersi per specifici riferimenti ideologici, stile comunicativo e forme di azione politica, sono spesso in aperto contrasto.
Un secondo scoglio è costituito dalla pressoché generale tendenza delle formazioni a cui questa etichetta viene applicata a respingerlne l’attribuzione, ritenendola inaccettabile – per il richiamo al radicalismo, spesso interpretato come sinonimo di estremismo – oltre che infondata, dato che molte di esse si pretendono estranee alla dicotomia sinistra/destra, che giudicano superata.
Un terzo dato che complica l’analisi è l’impossibilità di collegare i partiti di cui si sostiene l’appartenenza ad una famiglia comune ad un contenitore transnazionale unitario. Al di là dell’inesistenza di una loro “internazionale” paragonabile a quelle liberale, socialista, popolare o conservatrice, va infatti registrata la dispersione di questi soggetti in tre diversi gruppi del Parlamento europeo e persino tra i non iscritti. Il recente aumento dei contatti bi o trilaterali fra alcuni di essi non sembra peraltro destinato a produrre un superamento di questa lacuna, stante la loro sbandierata propensione a conservare gelosamente la propria specificità nazionale.
Malgrado queste riserve, nel campo politologico il ricorso all’espressione da cui siamo partiti è sempre più frequente e ha trovato la più diffusa accoglienza nella formula «destra radicale populista» proposta nel 1993 da Hans-Georg Betz per raccogliere in un’unica categoria un certo numero di movimenti politici anti-establishment e anti-immigrazione che nel decennio precedente avevano iniziato ad affermarsi sulla scena elettorale dei paesi europei, come i Partiti del progresso danese e norvegese, la Fpö austriaca, il Front National francese, la Lega Nord. Da più parti messa in discussione, ma ripresa nel 2007 da un altro influente studioso di questi fenomeni, Cas Mudde, questa denominazione può consentire di uscire dall’impasse e di tracciare un sintetico panorama delle posizioni assunte dagli attori politici di cui ci occupiamo di fronte allo sviluppo del processo di integrazione europea.
Un’operazione di questo genere potrebbe, di primo acchito, apparire superflua, giacché tre degli aggettivi abitualmente associati a questi soggetti – nazionalisti, sovranisti, euroscettici – dovrebbero essere sufficienti a definire il rapporto che essi intrattengono con l’idea stessa di Europa e con le sue declinazioni istituzionali.
Tuttavia, se ci si pone in una prospettiva di studio di carattere storico e si adotta un metodo di indagine empirico dei comportamenti e delle dichiarazioni programmatiche dei partiti in questione, l’analisi può condurre a considerazioni meno generiche e scontate.
Se se ne segue il percorso ponendolo in relazione ai vari momenti di sviluppo delle politiche europeiste, l’atteggiamento della destra radicale populista può essere infatti suddiviso in due fasi distinte, separate da uno spartiacque: il trattato di Maastricht adottato nel febbraio 1992 dai dodici paesi membri dell’allora Comunità europea, che per effetto di quell’atto si trasformava in Unione.
Sino a quel momento, gli allora non molti rappresentanti di quest’area avevano mostrato un certo grado di generale accettazione delle politiche comunitarie, pur criticando alcune di esse (in particolare quella agricola, soprattutto a causa dell’imposizione del criterio delle quote limitate di produzione di taluni generi alimentari: vino, latte ecc.), ogniqualvolta apparivano ai loro occhi in contrasto con gli interessi della propria economia nazionale. Malgrado i ricorrenti accenti polemici verso l’“Europa dei mercanti” e gli eccessi dei “burocrati di Bruxelles”, l’idea di una maggiore integrazione politica continentale, in particolare in campo militare, era vista positivamente, con il dichiarato intento di fare del continente un’entità indipendente in grado di fare da contrappeso alle superpotenze sovietica e statunitense. Le conseguenze del crollo del muro di Berlino avevano rafforzato questa speranza, presto però trasformatasi in disillusione alla vista degli squilibri che la nuova situazione comportava, in primis l’avvio di una forte immigrazione da Est verso Ovest e il profilarsi di una concorrenza dei paesi ex socialisti in termini di costo del lavoro, con l’effetto di favorire una massiccia delocalizzazione delle strutture industriali.
Nel quadro della globalizzazione – che alle destre radicali era per principio indigesta, per i contorni cosmopoliti che attentavano culturalmente alla preservazione delle identità nazionali – il progetto del mercato unico europeo perdeva la precedente attrattiva e suscitava, anzi, preoccupazione.
A trasformare quella diffidenza in ostilità è stato, come detto, il Trattato sull’Unione europea, con la sua accentuazione delle competenze della Commissione dell’Unione a scapito di quelle dei singoli Stati, la fine delle sovranità monetarie nazionali e la creazione di una valuta unica, il principio di libera circolazione transfrontaliera e l’ampliamento dei poteri delle istituzioni sovranazionali in campo giudiziario. Contrastato vigorosamente nei parlamenti e nei referendum nazionali, l’accordo raggiunto a Maastricht ha dato il via ad un’opposizione sistematica dei partiti della destra radicale populista a tutte le mosse successive del processo di integrazione, dalla nascita dell’euro all’ammissione dei nuovi Stati membri e al varo di nuove figure e competenze istituzionali. Le sfumature euroscettiche della fase precedente si sono trasformate in un aperto rifiuto, l’euroreject di cui parlano, nei loro lavori, Taggart e Szczerbiak.
Questa posizione permane ancora oggi, anche se assume accenti diversi a seconda delle singole situazioni in cui i partiti della destra radicale populista agiscono. L’impatto delle crisi che hanno colpito il continente – quella economica apertasi nel 2008, quella migratoria del 2015, quella pandemica iniziata nel 2020 – ha infatti avuto dimensioni ed esiti differenti sui paesi, condizionando l’atteggiamento di ciascuna formazione nei confronti delle misure assunte dalle istituzioni comunitarie, a partire dalla Commissione e dalla Banca centrale. Anche se in nessun caso ha comportato un’estinzione della complessiva diffidenza verso l’Unione.
Per verificare come oggi questo sentimento si esprima, e su quali argomentazioni faccia perno, occorrerebbe una comparazione sistematica dei programmi, dei comportamenti nei parlamenti nazionali e nel parlamento europeo, nonché delle attività di propaganda e mobilitazione, di ognuno dei partiti di questa variegata famiglia. Compito che esula dai limiti di questa ricognizione. Tuttavia, alcuni interessanti elementi di analisi si possono trarre già dal confronto dei programmi proposti di recente all’elettorato da sei fra le più significative componenti di quest’area: Rassemblement National, Fratelli d’Italia, Lega per Salvini, Alternative für Deutschland, Fidesz, Freiheitliche Partei Österreichs.
Fra i punti di convergenza ricavabili da questi documenti c’è la comune e ferma opposizione all’attuale gestione dell’Unione europea. Se però i cinque partiti occidentali si spingono fino a prevedere la dissoluzione dell’istituzione, che per Marine Le Pen dovrà essere sostituita da un’Alleanza europea delle nazioni e per Fd’I da una Confederazione di Stati nazionali, Fidesz, che era già al governo quando l’Ungheria richiese e ottenne l’adesione all’Ue e alla Nato, si limita ad invocare un ritorno alla “ispirazione cristiana” del progetto europeista originario, che sarebbe stato abbandonato a profitto di un’impostazione tecnocratica e materialista. Revocare tutti i trattati sottoscritti dal 1993 in poi è il primo passo da tutti condiviso per giungere all’auspicato cambio di rotta. Vox suggerisce che al loro posto ne venga approvato uno nuovo “ispirato alla linea difesa dai paesi del gruppo di Visegrád in materia di frontiere, sovranità nazionale e rispetto dei valori della cultura europea”; le altre formazioni si limitano ad auspicare il ritorno alla Comunità Economica Europea pre-Maastricht (Lega, AfD) e l’avvio di una forte cooperazione fra “popoli liberi e patrie autonome” (Fpö), che nel caso di Fd’I non si limita al terreno economico ma si estende a sicurezza, mercato unico, difesa, immigrazione, ricerca, politica estera.
Comune è la ripulsa di quello che in tutti i programmi è descritto come il super-Stato federale in gestazione, a cui si imputano mancanza di democraticità, subordinazione agli interessi delle multinazionali e del grande capitale, elefantiasi burocratica e incapacità di far fronte alla minaccia di un’immigrazione di massa destinata a cancellare i contorni di identità nazionali modellatesi nel corso di una storia plurisecolare. Per contrastare questo progetto, che è dipinto come il frutto di utopie ideologiche, si invocano il rafforzamento della sovranità degli Stati esistenti e l’accettazione della superiorità delle costituzioni nazionali su qualunque atto legislativo deliberato nell’ambito dell’Unione.
Una marcata attenzione è riservata anche alle premesse culturali del nuovo assetto che dovrà sostituirsi all’attuale. In tutti i testi viene sottolineata la netta distinzione che intercorre tra l’Unione europea e l’Europa, e se della prima si auspica la dissoluzione, verso la seconda si mostra un forte attaccamento. L’assunzione della sua “eredità millenaria” e il richiamo ai fondamenti originari della sua civiltà – che servono, ad esempio, a farli concordare sul netto rifiuto dell’adesione all’Unione della Turchia – sono però accompagnati dall’insistenza sulla pluralità delle tradizioni che ad essa si riconnettono – una pluralità che per la Lega, l’Afd e la Fpö si estende ai livelli locali e regionali, mentre per Fratelli d’Italia e Vox si arresta alla dimensione nazionale. Anche da questa differenza si evince come su ognuna di queste formazioni continui a pesare la rispettiva impronta genetica, in alcuni casi di natura nazional-statalista, in altri ispirata ad una prospettiva autonomista e federalista.
Un altro ambito di relativa differenziazione è il giudizio sull’euro. Anche se, in sé, l’idea della moneta unica non ha mai suscitato in questo campo particolari simpatie, alcuni partiti della destra radicale populista, che pure avevano espresso forti critiche in passato, paiono essersi ormai rassegnati al suo mantenimento: è il caso del Rassemblement National, di Vox e della Fpö, che hanno espunto l’argomento dai loro programmi. Altri invece mantengono le loro riserve, giudicandolo “un buon affare per pochi” (Fd’I), “la principale causa del nostro declino economico” (Lega), “un progetto fallito” (AfD). Anche se i motivi chiamati in causa per spiegare questo asserito fallimento sono diametralmente opposti: per i partiti italiani si collegano all’imposizione ai singoli paesi di politiche di austerità economica, per il partito tedesco ad aver dato pessimi risultati è stata la scelta di concedere eccessivi crediti a paesi in cronico deficit.
Anche limitandosi a queste sintetiche osservazioni, appare chiaro che, se da un lato le destre radicali mostrano una spiccata convergenza sul piano delle critiche rivolte a quelle che giudicano carenze o storture dell’Unione europea, dall’altro non hanno un’idea altrettanto chiara sull’assetto che dovrebbe prenderne il posto. Parlano di cooperazione, senza però avere una visione comune dei campi in cui essa dovrebbe realizzarsi; in alcuni casi auspicano un’alleanza istituzionalizzata fra gli Stati nazionali, in forma confederale, mentre in altri si limitano a prefigurare un reticolo di accordi bilaterali. E restano vaghi sui rapporti che questa loro Europa alternativa dovrebbe avere con gli altri protagonisti della scena geopolitica. Sono i limiti dell’impostazione nazionalista e particolaristica del loro retroterra culturale, che già in passato ne ha impedito un’efficace cooperazione e oggi si manifesta nella incapacità di dar vita ad una struttura di coordinamento unitaria e, di conseguenza, di pesare sulle scelte politiche dell’organismo sovranazionale con cui sono costrette a confrontarsi.