Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Perché raccontare la storia oggi?

Almeno per due ragioni molto pratiche.

La prima per trovare un intreccio e un filo tra storie dal basso, storie collettive e storia pubblica. La seconda per il fine, anche utilitaristico, che quel racconto di storia si pone.

Proviamo a dirlo più esplicitamente: costruire storia dal basso implica prestare attenzione a quei soggetti che spesso la storia l’hanno fatta, ma poi se la sono sentita raccontare da altri, o comunque hanno avuto la sensazione che fare storia non fosse di loro competenza: in breve, quelli che spesso sono raffigurati come «spettatori di storia».

Contro le visioni auto-riferite, esclusiviste, discriminanti e spesso fondate su rimozioni e storture, proponiamo di riflettere sui limiti e le potenzialità di un’idea di storia come terreno di partecipazione collettiva, di incontro e negoziazione delle molteplici posizioni che compongono la società e che devono animare la cittadinanza.

Per questo occorre recuperare le voci dal basso, dare spazio a esperienze che illustrano percorsi diversi, che nascono da diverse tensioni e che propongono patti di cittadinanza distinti. Ma è importante non sacralizzarle assumendole come “controstoria”, ma come parti di una storia «grande» con cui anch’esse devono fare i conti. Perché le loro ragioni, comunque, non sono la ragione assoluta.

La sfida del racconto di storia e della costruzione di calendario civile, nella sua essenzialità, non riguarda quale data si ricorda o quale evento si sceglie come rappresentativo, ma il fine per cui si individua una data o un evento e la funzione che quel tassello ha nella costruzione del mosaico della identità europea. Il calendario civile europeo in breve non è solo ciò che si ricorda o che si vuole ricordare, ma deve ambire a rappresentare tutto l’insieme di passaggi storici che attraversano questo mosaico identitario come linee di frattura e che rendono complesso e problematico qualsiasi discorso omogenizzante su idea di Europa e identità europea; che non tenga conto, cioè, della varietà di manifestazioni che questa ha assunto nel corso della storia e che ancora può assumere in maniera cangiante.

Tema che allude anche a una condizione in cui ci troviamo calati – non eccezionalmente rispetto al passato – giacché è compito di ogni generazione ripensare il passato che eredita e dare senso e aggiornamento al presente in cui vive e, ancor più, al futuro per il quale si impegna a «fare».

I possibili scenari di futuro dipendono strettamente dal tipo di passato che scegliamo come rappresentativo, dalle motivazioni di questa scelta e dal tipo di narrazione che eleggiamo come veritiera. La convinzione, dunque, è che a ogni generazione spetti il compito di ricostruire un possibile scenario di futuro e di progetto, mettendo di nuovo in discussione ciò che il passato ci lascia in eredità e facendo i conti con ciò che di quel passato intendiamo recuperare perché convinti che in quel passato stia la chiave della nostra “salvezza”, capace di «metterci in salvo», cioè, da una degenerazione del presente.

Si scontrano qui, accanto a due diverse idee di futuro, soprattutto due modi distinti di pensare e riflettere sul passato. Tutto questo in relazione alle emergenze e alle urgenze che abbiamo di fronte a noi, ora, in questo nostro tempo. Ovvero in un tempo in cui la guerra è tornata drammaticamente ad essere l’attrice protagonista che costruisce il nostro presente.

La dinamica di guerra e, soprattutto, le pratiche narrative che nel tempo attuale (inaugurato dalla fine dell’Europa «post seconda guerra mondiale») hanno caratterizzato la narrazione della guerra hanno ridato alla storia, intesa come ricostruzione, ma soprattutto costruzione(narrativa) del passato, una nuova centralità e un inaspettato protagonismo.

La prima questione generale consiste nella definizione del calendario civile che noi pensiamo per questo nostro tempo. Nonostante l’uscita dal modello dello “Stato-nazione” (costruire date che avessero come fine la definizione dell’identità dei «vincitori»), sopravvive una modalità in cui la storia anziché essere un terreno che serve per riflettere, diviene un catechismo in cui credere. Non ha lo scopo di allargare la sfera della visione aperta, plurale, ma stabilisce un ordine ideologico. A conferma del carattere di costruzione “religiosa” dell’identità politica e culturale.

La politica tende a dichiarare strumentalmente la ricerca del “bene”, ma perlopiù tende a concretizzarsi in azioni di contenimento e contrasto del “male”. Ovviamente la personalità e la struttura di questo “male” dipendono dai rapporti di forza, dalla capacità – meglio dalla volontà – di mettersi in discussione, ovvero dalla funzione cui si affida la costruzione della tavola dei valori, o del «decalogo» del nostro tempo, e, dunque, delle date a cui si dà rilevanza. Quella memoria pubblica che s’intende costruire non serve per riflettere, per riformulare o per proporre un’idea inquieta del passato, ma un’idea salvifica e una visione vittimaria del passato che dunque legittimi l’identità di gruppo nel tempo presente.

Se noi consideriamo il confronto che attraversa le realtà nazionali e politiche europee o che si sentono coinvolte nella costruzione di Europa, il primo dato da cui occorre prendere le mosse è dunque che quel processo riguarda l’idea di Europa che si intende coltivare. In questo confronto vediamo che a prevalere sono procedure narrative che corrispondono a due diverse modalità: racconto storico come espiazione, oppure racconto di storia del proprio passato come orgoglio.

Consideriamo la prima procedura: racconto storico come espiazione. Si fonda su una serie di pratiche messe in atto nei luoghi della storia vissuti come trauma cui si proponeva un’azione (di pellegrinaggio, di ricostruzione dello scenario degli eventi, di esposizione narrativa, di musealizzazione) come correttivo e emendamento dei caratteri e dei comportamenti individuali e di gruppo. Nelle condizioni estreme determinate da guerra, disastri, comunque «tempi eccezionali», quella ricostruzione di passato prossimo – che spesso ha coinciso con costruzione di «luoghi di memoria» e di nuovo «calendario civile» – partiva dall’idea che occorresse prendere le distanze dal passato per pensare di poter progettare un futuro.

Alla base c’è una funzione della costruzione della memoria pubblica che aveva carattere di «terapia» collettiva e che intendeva il racconto della storia come assimilabile a una pratica di «terapia». Ovvero il racconto e l’incontro con i luoghi inquieti della storia come «pratica di cura».

Consideriamo la seconda procedura. Assumere il racconto di storia del proprio passato come orgoglio significa che l’oggetto di storia era prevalentemente vissuto e pensato come rivendicazione della propria personalità/identità storica. Ciò che prevale è una versione vittimaria e “incontaminata” della storia, della propria identità intesa come concetto omogeneo. Stando a questa modalità la storia è stata solo subìta, e mai se ne è stati protagonisti. Dunque, il presupposto è che nella condizione attuale si entra vergini, senza “peccato” in relazione a un passato deciso da altri. In questa seconda versione, oltre alla dimensione vittimaria, una delle condizioni culturali essenziali è una visione complottista della realtà, fondata sull’idea di riscatto, di rivendicazione del diritto ad avere una storia che assume per l’appunto i caratteri di una controstoria.

Queste due diverse modalità, quali differenti idee di Europa costruiscono?

Il racconto storico come espiazione assume il progetto di una costruzione europea come patto per il futuro a partire da una messa in discussione del modo di costruire patto politico proprio della storia passata, mentre il racconto di storia del proprio passato come orgoglio trova il suo fondamento nella individuazione del nemico, nella costruzione di una ideologia della convivenza fondata sulla omogeneità politica del gruppo umano che si intende governare.

In breve, mentre il primo percorso, con incertezza, mira a una costruzione di convivenza democratica, pluralista, interculturale, il secondo ha una visione totalitaria della politica, non ha a fondamento una visione della cittadinanza come “patto di rigenerazione universale”, ma assume una visione di codice genetico di salvezza, e dunque ha una visione della cittadinanza come insieme di eguali. Ovvero: non aperto.

In questa sfida della cittadinanza, oggi la spaccatura non è solo tra democratici e autoritari, ma passa attraverso tutte le famiglie politiche, di destra e di sinistra, e tutte le esperienze di cultura politica: quelle che si ispirano a una visione pluralista dell’ordinamento sociale e politico, come quelle sovraniste.

È una doppia distinzione che lo scenario di guerra oggi presente nel territorio dell’Europa rende ancora più bruciante e urgente. Il problema di domani non sarà infatti solo chi vincerà la guerra, bensì con quale idea di Europa, di cittadino europeo o anche più direttamente di identità sociali e culturali ci dovremo confrontare domani.

Nello scenario peggiore potrebbe prevalere una dimensione di cittadinanza differenziata e omogenea alle singole realtà nazionali, senza spazi di riflessione e negoziazione comune, o una versione di cittadinanza di tipo “imperiale”, che va oltre il nucleo di omogeneità culturale o di appartenenza statuale per costruirsi come cittadino fedele al potere, ovvero secondo una logica di impero. È soprattutto in riferimento a questo scenario che pensare Europa domani ha senso ed è urgente e la sfida di un calendario civile europeo oggi deve essere spezzare questo scenario per lavorare attorno a una proposta di cittadinanza fluida e permeabile, capace di tenere conto delle differenze, delle fratture e dei rimossi che rendono aleatorio qualsiasi discorso omogeneizzante.

Lo scenario di oggi, insomma, ci pare problematico su quattro versanti, relativi a mentalità, geografia culturale, identità, campo di conflitto geopolitico.

Nella storia del Novecento, l’Europa è stata pensata nei momenti oscuri della storia, quando il quadro presente obbligava a definire un nuovo scenario «impossibile» rispetto al quale valesse la pena di pensare futuro. Pensare Europa voleva dire immaginare futuro superando le contraddizioni del presente, senza nostalgie del passato infranto.

La stessa sfida riguarda anche noi, oggi,ora.

Approfondimenti


Consulta il programma dei workshop


Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 127299\