Università di Roma Tre

Notava James Galbraith nel 1999 che il corpus di teorie e prassi politiche prevalenti in campo macroeconomico era caratterizzato, allora come ora, da una sorta di “ossessione dell’inflazione”, nonostante all’epoca la realtà delle economie avanzate proponesse questioni e problemi di tutt’altro segno. L’ossessione non è diminuita negli anni seguenti, nonostante il regime di bassa inflazione che ha caratterizzato tutti gli anni duemila e i veri e propri rischi deflazionistici che si sono presentati a più riprese dopo la grande recessione del 2008-9. A crisi finanziaria già in atto negli Stati Uniti, nei primi mesi del 2008 la Banca Centrale Europea innalzava i tassi di interesse con lo scopo di combattere una fiammata inflazionistica dovuta ai prezzi energetici e dei cereali, salvo dover precipitosamente tornare sui suoi passi, nella seconda metà dell’anno, man mano che le conseguenze pervasive della crisi si manifestavano anche in Europa. Nello stesso periodo, nota Paul Krugman, i verbali delle riunioni di politica monetaria della Federal Reserve degli Stati Uniti erano pieni di riferimenti ai pericoli dell’inflazione, mentre menzionavano quasi di sfuggita il tema della disoccupazione e il pericolo di crisi sistemica, e questo perfino dopo il falliimento di Lehman Brothers del settembre 2008. Più tardi, durante la lunga ripresa degli anni 2010, il tasso di disoccupazione negli USA è progressivamente diminuito, fino a sfiorare e poi oltrepassare quel “tasso naturale di disoccupazione” che la teoria dominante considera come barriera inflazionistica. Nonostante ciò non abbia prodotto affatto accelerazioni dell’inflazione, pure è bastato per indurre la FED a innalzare a più riprese i tassi di interesse, sempre per contrastare presunti pericoli inflazionistici che non si verificarono affatto.

Più recentemente, l’ossessione dell’inflazione è riemersa nel dibattito sulla dimensione dei pacchetti di aiuti pubblici approvati negli Stati Uniti per far fronte all’emergenza COVID. Se per tutto il 2020 la necessità di interventi pubblici rapidi e massicci per sussidiare le fasce più colpite della popolazione e rilanciare l’economia avevano incontrato il consenso generale, l’approvazione del pacchetto Biden all’inizio del 2021 ha invece suscitato polemiche, fra l’altro tra economisti tradizionalmente considerati “keynesiani” come Lawrence Summers e Olivier Blanchard. L’imponente spesa pubblica prevista, a loro dire, avrebbe creato un flusso di spesa ben superiore alle capacità produttive dell’economia, portando l’economia ben oltre la barriera del tasso naturale di disoccupazione scatenando così un’accelerazione dell’inflazione.

Evocata o agitata come uno spauracchio per anni, senza che i fatti corroborassero questi timori, ora invece l’inflazione si è materializzata davvero.

I dati più recenti negli Stati Uniti parlano per febbraio di un incremento dei prezzi del 7,9% su base annua, il più alto fra quelli registrati per tutti i trent’anni precedenti, ma anche in Europa i prezzi sono in costante ascesa, seppur a ritmi inferiori. Così, mentre il dibattito sull’inflazione è tornato ad occupare anche le colonne dei giornali, i dati sembrano dare ragione a quegli economisti che temevano il surriscaldamento dell’economia per eccesso di domanda.

Ma come potrebbe una modellistica teorica che ha fallito per decenni nel predire l’inflazione fornire ora strumenti adeguati per combatterla? È davvero soltanto questione di interrogarsi sulla tempistica opportuna degli interventi delle banche centrali, ora generalmente accusate di reagire troppo tardi e troppo timidamente? La domanda centrale, per gli economisti, dovrebbe riguardare la capacità stessa della teoria economica di analizzare e capire il problema dell’inflazione, di distinguerne le sue diverse forme e di proporre rimedi efficaci. L’esperienza degli ultimi decenni sembra dire altrimenti.

I modelli macroeconomici più largamente diffusi, compresi quelli utilizzati dalle banche centrali, sono basati in ultima analisi sull’idea teorica che il mercato sia dotato di meccanismi che spingono il sistema a realizzare spontaneamente il pieno impiego delle risorse.

Nella macroeconomia degli ultimi cinquant’anni, questa idea è declinata nei termini di una tendenza spontanea verso un presunto equilibrio ‘potenziale’ caratterizzato dal già citato tasso di disoccupazione naturale. La fiducia nei meccanismi di mercato ha come contraltare la forte sfiducia nei confronti dell’intervento pubblico, in particolare nei confronti della spesa pubblica utilizzata a fini espansivi del livello di attività e dell’occupazione. Sovrapponendosi ai meccanismi di mercato e alterandoli, la politica fiscale espansiva avrebbe come esito inevitabile quello di creare un’espansione eccessiva, un mercato del lavoro eccessivamente teso, e dunque conseguenze inflazionistiche.

Incuranti dell’eleganza formale della teoria, i fatti si sono però ostinati negli anni recenti a smentirne le principali conclusioni. Da un lato, nonstante l’uso di complessi e sofisticati modelli, l’individuazione empirica del tasso di disoccupazione naturale è risultata quantomeno problematica se non del tutto fallimentare. Il presunto centro di attrazione del sistema mostra nelle stime empiriche valori continuamente mutevoli, e perdipiù il sistema non si comporta, quando il tasso di disoccupazione effettivo si avvicina al presunto equilibrio, nel modo previsto dalla teoria. D’altro lato la presunzione teorica che le economie reali fluttuino intorno a un trend di equilibrio porta a definire per alcuni paesi come ‘naturali’ valori elevati della disoccupazione, purché questi si siano mostrati persistenti per un certo numero di anni. La verità è che le economie di mercato tendono a realizzare un sistematico spreco di potenziali risorse peroduttive: al di là delle ossessioni degli economisti, le condizioni per un’insostenibile pressione della domanda sulle risorse tale da dar luogo a inflazione da domanda si sono raramente verificate, e certamente non negli ultimi decenni, perfino negli Stati Uniti dove il tasso di disoccupazione è sceso a lungo al di sotto del 4% nell’ultima parte degli anni 2010.

Ma se i fatti non si curano a sufficienza di adeguarsi alla teoria, ancor meno è la teoria economica dominante a darsi pena di tener conto dei fatti. Gli economisti hanno continuato ad avere l’ossessione dell’inflazione, continuando a proporre, al minimo segnale di rialzo dei prezzi, la loro ricetta prediletta: aumentare i tassi di interesse, “raffreddare” l’economia, frenando la crescita della domanda aggregata, creare così un po’ di disoccupazione in più, nella speranza che questa impedisca ai salari di crescere velocemente e così bloccare la spirale inflazionistica – vera o presunta.

Si possono avanzare molti dubbi anche sull’efficacia del rimedio, oltre che sulla attendibilità della diagnosi. Gli effetti delle variazioni del tasso di interesse sulla domanda aggregata sono quanto meno dubbi, sia sul piano teorico che empirico. Il potenziale espansivo delle diminuzioni del tasso di interesse sugli investimenti è stato smentito in molte analisi; mentre gli aumenti possono avere qualche efficacia restrittiva sulla domanda, ma soltanto su singole voci di spesa, come il consumo finanziato dal credito o gli investimenti residenziali. Ma gli aumenti del tasso di interesse, esso stesso un fattore di costo per le imprese, tendono ad essere storicamente associati ad aumenti del livello dei prezzi, come molta letteratura critica si è incaricata di mostrare, e ad avere effetti sulla distribuzione del reddito a favore dei profitti e a danno dei salari.

Cosa c’è dunque dietro l’ossessione dell’inflazione?

Indipendentemente dall’esistenza o meno di un chimerico tasso di disoccupazione naturale, e con buona pace dei modelli mainstream, ciò che molti attori della politica economica sanno davvero è quanto Michal Kalecki aveva già notato nel 1943, e Karl Marx ancor prima. Ben al di sotto del pieno impiego, un livello persistentemente alto di occupazione rischia di rafforzare i lavoratori, di dar loro maggior potere contrattuale, alimentando le loro richieste salariali. La disoccupazione può dunque disciplinare le pretese dei lavoratori. Si noti che non si tratta affatto di una relazione meccanica tra disoccupazione e crescita dei salari. L’esperienza storica mostra che ci sono periodi in cui la forza contrattuale dei lavoratori è talmente indebolita che anche livelli bassi di disoccupazione non bastano a stimolare rivendicazioni – ancora, è la recente esperienza statunitense a mostrarlo. Sembra dunque di poter dire che non sia tanto l’inflazione in sé a preoccupare le autorità di politica economica, quanto un’inflazione che nasca dal conflitto distributivo, con salari monetari che crescono più velocemente dei prezzi.

Qual è la rilevanza del dibattito teorico e delle convinzioni della maggior parte degli economisti rispetto al fenomeno corrente dell’inflazione? Quella che osserviamo ora non sembra essere un’inflazione da domanda, come notato da più di un commentatore, visto che nelle principali economie il PIL non ha affatto superato, e nemmeno uguagliato, il trend di crescita pre-covid e vista l’esistenza, tuttora, di ampi margini di sottoutilizzazione del lavoro. Dunque, nella misura in cui gli interventi sui tassi di interesse fossero effettivamente in grado di rallentare la crescita della domanda aggregata, potrebbero avere scarsi effetti sulle vere cause dell’inflazione, e piuttosto frenare la ripresa, creando nuovi aumenti della disoccupazione. Né, ovviamente, l’inflazione corrente è dovuta a eccesso di quantità di moneta. Se le iniezioni di liquidità fossero di per sé sufficienti a produrre inflazione, questa sarebbe stata esplosiva negli anni passati, a fronte del massiccio dispiegamento di politiche monetarie non convenzionali da parte delle banche centrali. Si tratta piuttosto, con tutta probabilità, di un’inflazione da costi, dovuta alla brusca interruzione e poi alle difficoltà di riattivazione delle catene internazionali di fornitura, a strozzature specifiche determinatesi in alcuni settori, come quello dei seminconduttori, e all’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche. I salari, che pure – almeno negli USA – stanno crescendo a ritmi molto superiori al passato, dappertutto non riescono a tenere il ritmo dell’aumento dei prezzi, determinando perdite di salario reale.

L’inflazione non è un fenomeno da sottovalutare, dato che i suoi effetti negativi tendono a colpire le fasce più deboli della popolazione. Non è facile agire su di essa. Come è stato indicato da alcuni commentatori, piuttosto che interventi macroeconomici sui tassi di interesse sarebbero ora desiderabili interventi di controllo di alcuni prezzi, o politiche atte a rimuovere strozzature specifiche. Questi interventi non sono di facile attuazione, perché richiedono un’attenta analisi dei meccanismi che operano nei particolari settori e nei particolari mercati dove le maggiori spinte inflazionistiche si stanno materializzando. Una capacità di intervento fine sull’economia, fatta di interventi mirati e settoriali, che la retorica liberista degli ultimi decenni non ha certo contribuito a costruire o rafforzare.

Quello che è certo è che la teoria economica dominante serve a ben poco. Ossessionati per decenni dall’inflazione, proprio adesso che si è materializzata gli economisti non hanno ricette utili da offrire.


Photo by John McArthur on Unsplash
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