La fine dello stato di emergenza al prossimo 31 marzo non segna la fine di altre questioni che pure hanno assunto un carattere emergenziale, ma che tali non dovrebbero essere vista la natura strutturale delle stesse. I posti di lavoro in crisi crescono e l’insoddisfazione verso un status quo insostenibile per la maggioranza si moltiplica. Gli scenari di guerra così come la pandemia e la sua gestione si stratificano su situazioni locali fatte di precarietà, ingiustizia e insicurezza.
A ribadirlo, sabato 26 marzo, la manifestazione nazionale a Firenze promossa dal Collettivo di fabbrica lavoratori GKN e dal Gruppo di Supporto “Insorgiamo con i lavoratori GKN” e in connessione con lo sciopero globale del clima del giorno precedente.
La vicenda dei lavoratori Gkn licenziati in tronco via mail, lo scorso 9 luglio, dal Fondo finanziario Melrose, non si è esaurita per due principali motivi. Il primo, di carattere oggettivo, ha a che fare con la reindustrializzazione promessa e non ancora realizzata. L’accordo di reindustrializzazione arriva a valle di una lotta determinata che ha portato gli operai licenziati all’occupazione della fabbrica e, contestualmente, al racconto della lotta che ha implicato la continua uscita dalla fabbrica stessa per andare a raccontare ad altri quanto stava accadendo e così pensarlo, elaborarlo, problematizzarlo, inserendolo all’interno di un contesto politico più ampio. La seconda è direttamente connessa a queste – preliminari – considerazioni: la capacità di non chiudersi nella propria vertenza sta garantendo l’ossigeno necessario alla continuazione della mobilitazione e alla sua – seppure faticosa – generalizzazione. Gli operai hanno sapientemente gestito la loro lotta in connessione alle altre battaglie necessarie: il clima, la guerra, la precarietà trasversale, il diritto allo studio, contro la selezione di classe e l’alternanza scuola lavoro, sono questioni aperte e lo sono tutte sullo stesso – necessariamente unico – terreno.
Ma cosa ci dice, in termini più generali, questa vicenda? Per metterlo meglio a fuoco andiamo per punti.
Primo punto: ci ricorda che la lotta è prassi. Ovvero è unione di teoria e pratica politica. Gli operai della Gkn e il Collettivo di Fabbrica hanno scelto di resistere in maniera collettiva e organizzata alla chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio e alla sua delocalizzazione. I lavoratori e le lavoratrici esprimono, nei mesi di occupazione, la capacità di creare movimento politico e azione sindacale. La società civile e i cittadini, in un processo di apprendimento sul campo, empatizzano con la loro lotta. Le altre vertenze aperte nel mondo del lavoro solidarizzano con loro. La politica istituzionale va a traino qualche volta e qualche altra gioca a ribasso.
E l’incontro con il territorio è , in questo senso, cruciale e fruttuoso.
Il grado di condivisione della lotta è infatti un sicuro successo, merito degli operai organizzati e dei solidali. Insieme hanno immaginato e dato vita ad assemblee e iniziative di costruzione politica (vedi gli incontri con i giuristi democratici, gli economisti e gli ingegneri) in grado di creare coscienza al proprio interno e di uscire fuori dalle mura della fabbrica per raggiungere altri lavoratori e spaccati sociali. La questione climatica, per esempio, è direttamente connessa a quella del lavoro. In molti posti si è costretti a scegliere tra salute e lavoro (si pensi a Taranto e alla questione Ilva), in altri mancano entrambi (si pensi alla disoccupazione dilagante in tante regioni del nostro Mezzogiorno dove, peraltro, di – assente o mala – sanità si muore) e in altri ancora esiste un equilibrio difficilmente sostenibile ancora a lungo (si vedano le città più inquinate del nord Italia). La messa in discussione di un modello produttivo non è cosa di poco conto e non lo è a maggior ragione se più voci si levano in tal senso e se la classe lavoratrice aspira anche a partecipare alla scrittura delle regole che dovrebbero tutelarla. Quanto è accaduto a proposito di quella che doveva essere la legge sulle delocalizzazioni, stimolata proprio dai lavoratori della Gkn, e che ha finito per essere una modalità di regolamentazione e una proceduralizzazione della chiusura degli stabilimenti è indicativo. Se sei in cerca di maggiori margini di profitto e vuoi chiudere una fabbrica, seppure produttiva, in Italia, puoi pagare una multa e decidere di impiantare un nuovo stabilimento altrove, magari approfittando di un minor costo del lavoro.
Secondo punto: tornano al centro delle piazze, anche se non del dibattito pubblico istituzionale, alcune parole, o meglio alcuni concetti. Le cose tornano ad essere chiamate con i loro nomi, quelli dal sapore un po’ novecentesco che a tratti ci si vergogna a pronunciare come se fossero un sintomo démodé. I rapporti di forza, sic et simpliciter, tornano ad essere una chiave di lettura e di interpretazione della realtà che ci circonda. La coscienza non è, di conseguenza, solo quella individuale e la distinzione tra sfruttati e sfruttatori non è solo vezzo intellettualista. Gli interventi, gli slogan e gli striscioni delle piazze ne sono la testimonianza. E, insieme alle pratiche di auto-organizzazione rispolverano un repertorio d’azione bottom-up decisamente arrugginito. Come ha recentemente notato sul punto il politologo Stefano Bartolini (Radicamento culturale e innovazione nella resistenza alla Gkn, 2021):
“Nel cuore della provincia italiana, a Campi Bisenzio, possiamo dunque osservare all’opera soggetti, parole e temi che evidentemente sono ancora radicati e ancora mobilitano, aggregano, sono capaci di costruire discorso. Osservandoli, viene da chiedersi se la crisi politica della sinistra, più che crisi di una cultura politica che ancora evidentemente sopravvive, non sia da circoscriversi a una dimensione interna ai partiti della sinistra…”.
Terzo punto: tuttavia, i fatti insistono in un contesto socio-politico che, di per sé, ha un peso. E se è vero, come sosteneva Marx, che: “… come la società… produce l’uomo in quanto uomo, così essa è prodotta da lui” (Manoscritti economico-filosofici del 1844, 1976), è altrettanto vero che la capacità di impatto sulla società dell’uomo cresce con l’organizzazione. E se da un lato la necessità di far emergere le contraddizioni e le ingiustizie si scontra con la mancanza di organizzazioni di massa, dall’altro l’incontro tra la società e le istituzioni non trova proprio (un) terreno. Lo scollamento tra piazze e palazzo, tra governanti e governati, è inferiore solo all’atomizzazione e all’individualizzazione sociale che conducono direttamente al disinteresse per la cosa politica. La partecipazione politica che alcuni spaccati della società mettono in campo contribuisce a modificare il contesto, ma la strada è lunga. E la considerazione successiva indica i termini in cui si potrebbe sviluppare una riflessione.
Quarto e ultimo punto: emerge l’assenza di una forza politica, radicale e organizzata, in grado di tessere le maglie di un conflitto sociale che, per l’appunto, rimane perlopiù inespresso e che fatica a fare capolino nel dibattito politico reale. Venti anni fa milioni di persone scesero in piazza insieme ai sindacati per difendere l’articolo 18 dagli attacchi del governo di centro-destra. Da allora in poi, i cambiamenti peggiorativi nel mondo del lavoro se li sono intestati associazioni, partiti e governi di centro-sinistra. Il patto non si è saldato. In altre parole e in termini socio-politologici, potremmo dire che il sistema di solidarietà, cioè l’identificazione e il senso di appartenenza che queste manifestazioni esprimono in piazza, non trova – ad oggi – lo strumento per cambiare il sistema di interessi, ovvero i valori condivisi e dominanti nella società.
Come ha scritto il sociologo politico Alessandro Pizzorno (Introduzione allo studio della partecipazione politica, 1966) a proposito dell’evoluzione della partecipazione politica:
“La risposta vien data con l’aprirsi o rafforzarsi di un nuovo canale di penetrazione del «privato» nella politica, col formarsi di un nuovo strumento di presenza, di pressione, di imposizione degli interessi privati: è quello che possiamo chiamare sinteticamente lo strumento associativo-organizzativo, cioè l’insieme di gruppi, di associazioni, di organizzazioni che aggregano gli interessi privati e li esprimono politicamente. Questo fenomeno permette che sulla scena politica si ristabilisca il peso delle forze, quindi delle disuguaglianze della struttura sociale. Ma gli effetti non sono a senso unico: acquisendo un modo di espressione politica, gli interessi privati adottano anche una nuova dimensione aggregativa, un nuovo terreno di confronto, quindi nuovi criteri di valutazione reciproca delle posizioni relative (e ciò vuole dire nuovi valori), e naturalmente nuove possibilità di modificare le posizioni di forza precostituite, cioè così di sormontare svantaggi come di ribadire e radicare privilegi. I movimenti sociali e i partiti sono l’espressione maggiore di questo affermarsi dell’organizzazione privata nella politica e della sua ambivalenza.”
Se, dunque, nuovi stimoli ed esigenze arrivano dal basso, si pone almeno il compito di alimentarli e di contribuire ad indirizzarne il cambiamento.