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«Tagliarsi i capelli, lasciarsi crescere la barba, e mettersi a bere vino»: durante la Grande Guerra, il maschio borghese europeo subì una profonda crisi identitaria, che emergeva dal contrasto tra una propaganda che esaltava le virtù virili e la violenza quotidiana della trincea. Se da una parte per molti di questi borghesi in uniforme vi erano in tutto ciò anche degli aspetti positivi, come ad esempio quello di irrobustire il proprio corpo, la guerra sembrava quasi che permettesse loro di scoprire una fisicità rimasta sino ad allora latente. Ma la guerra poteva anche sovvertire l’immagine del soldato virile, perché stanchezza, confusione e depressione erano spesso i segni impressi sul corpo e nella mente dei combattenti.
La «maschilità egemone» ne usciva di conseguenza rafforzata nei sui tratti aggressivi e allo stesso tempo indebolita dal pericolo di andare incontro a un pericoloso esaurimento dell’eroismo marziale prebellico.

La guerra sembrava perciò aver minato le fondamenta dell’archetipo della virilità, mostrando la fragilità proprio della sua espressione ideale: quella del maschio combattente. Nelle trincee, giovani nel pieno vigore della loro forza sperimentavano lo sfinimento e il deperimento fisico, ma soprattutto vedevano messe duramente alla prova tutte le principali qualità maschili: il coraggio e il senso del dovere, l’autocontrollo e l’autodisciplina. Non era quindi più tempo d’eroi, perché di fronte alla totale arbitrarietà della morte venivano quasi del tutto annullate le occasioni per dimostrare di essere soldati valorosi.

Insomma, se il successo in combattimento non dipendeva più dal merito individuale, ma dalla fortuna o dal fato, le virtù militari non venivano più legate all’ardore virile, ma alla capacità di resistere e ubbidire. Gli storici hanno iniziato perciò a soffermarsi sugli effetti svirilizzanti del conflitto, considerando la Grande Guerra come il momento di crisi del nesso «viril-militare». In una testimonianza dell’epoca, infatti, si può leggere in modo esplicito quanto questa dicotomia fosse ben presente nei soldati stessi: “… dicono che la guerra rende, fisicamente e moralmente, più maschiamente rudi e insensibili: io trovo in me, invece, almeno per quello che riguarda il morale, che ogni giorno che passa di questa vita assurda l’anima mia diventa sempre più scoperta, quasi femminilmente, ad ogni stimolo di intenerimento”. È una confessione che mostrava chiaramente il progressivo incrinarsi della figura marziale del combattente, con il conseguente rischio di andare incontro a un processo di femminilizzazione.

Troppe erano del resto le aspettative risposte sugli uomini per poter riuscire a superare la prova del conflitto. Il codice della mascolinità era infatti così incentrato sul coraggio e la capacità combattiva da generare forti preoccupazioni di non riuscire a rispettarlo. Visto che gli uomini non potevano mostrarsi deboli e vulnerabili, esprimere la paura significava infatti rifiutare più o meno consciamente non solo la guerra, ma anche la stessa concezione della mascolinità.

Lorenzo Benadusi

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