Pubblichiamo qui di seguito un estratto tratto da Non-persone di Alessandro Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1999.


La guerra, questa struttura impensata della cultura occidentale tornata prepotentemente alla ribalta del nostro mondo, ridefinisce le migrazioni internazionali in un quadro più netto e sinistro.

Solo una misera convenzione accademica fa chiamare migranti coloro che ormai sono per lo più fuggitivi dalle desolazioni della guerra.

Curdi di nazionalità turca e irachena, afghani e pakistani, tamil e liberiani, albanesi e algerini, nigeriani ed eritrei, salvadoregni e guatemaltechi, bosniaci e rom sfuggono alle categorizzazioni asettiche in cui le scienze delle migrazioni vorrebbero costringerli. Nel Mediterraneo, davanti a Gibilterra, nei mari tropicali o nei deserti del sud-ovest degli Usa non sono all’opera tanto i fattori demografici di attrazione e di espulsione, quanto le conseguenze della guerra. Intere popolazioni – basterebbe ricordare i palestinesi cacciati dall’Arabia saudita e dal Kuwait nel 1991 – diventano ostaggi, moneta di scambio o vittime di ritorsioni in conseguenza diretta o indiretta dei conflitti in cui il mondo occidentale è coinvolto. Oppure semplici obiettivi di strategie di destabilizzazione, come è avvenuto all’intera popolazione irachena, sottoposta dal 1991 al 2003 a un embargo che possiamo considerare una forma indiretta di genocidio. Milioni di persone che si aggiungono a quelli che fuggono dalla miseria di vaste zone dell’Africa e dell’Asia, dai conflitti civili e dai regimi repressivi. Centoventi milioni complessivi a metà degli anni novanta, centocinquanta probabilmente oggi.

Un’umanità alla deriva, in cui si confondono, spesso sulle stesse zattere, i giovani magrebini o senegalesi alla ricerca di fortuna e gli esuli provenienti da paesi di mezzo mondo.

Alla parte di questa umanità che riesce a filtrare l’Occidente non sa offrire molto più che lavori precari semiservili, mentre al resto offre la moltiplicazione di frontiere, di sbarramenti e di filtri e una catena im­pressionante di campi di detenzione: in Australia e lungo tutti i confini orientali d’Europa, in Thailandia e alla frontiera tra America di lingua spagnola e quella di lingua inglese. Gli anni novanta hanno visto una decisa esternalizzazione dell’internamento. Regimi fino a ieri considerati canaglia, come la Libia, o di dubbia reputazione in materia di rispetto dei diritti umani (Marocco, Tunisia, Thailandia) si vedono offrire milioni di dollari e di euro perché controllino o internino i migranti, loro o di altri paesi. La guerra contro i clandestini incrementa i controlli delle persone in un mondo già paranoizzato dal terrorismo.

Mentre la libera circolazione delle merci materiali e immateriali diffonde su tutta la terra i beni di consumo tipici dell’Occidente, i tentativi di una piccola parte dell’umanità spossessata di accedere al mondo ricco con­ducono sempre più spesso in fondo al mare o, nei casi meno sventura­ti, dietro un reticolato.


Foto di Miko Guziuk on Unsplash.
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