La decisione della Corte internazionale di giustizia del 16 marzo – che stabilisce la necessità di sospendere immediatamente il ricorso all’uso della forza da parte russa, di cui non può essere accettata la giustificazione di avere aggredito l’Ucraina per difendere i cittadini russofoni da un genocidio – si aggiunge a quella dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 2 marzo nella condanna da parte di organi internazionali dell’azione russa, non più solo con una decisione politica ma anche giuridica.

Non sono queste decisioni, per quanto importanti e significative, che possono fermare l’azione criminale – nel senso proprio di commettere crimini per il diritto internazionale – che Putin ha preso il 24 febbraio. A cosa si deve la scelta di non perseguire più per via di una trattativa pacifica e diplomatica quelle che Putin ritiene le ragioni e i diritti della Russia che l’Ucraina avrebbe minacciato e messo in pericolo?

Anche se è sempre difficile provare a scoprire cosa si annida nella testa dei dittatori – e Putin è emerso sempre più, ormai, come il despota della Russia postcomunista – è possibile abbozzare un’ipotesi, che sta prendendo sempre più piede tra gli studiosi e gli osservatori che non si adagiano dietro l’ideologia del realismo politico.

Lo storico russo Stephen Kotkin, autore di una biografia di Stalin di cui deve ancora uscire il terzo volume, alla domanda, suffragata da citazioni di George Kennan e John Mearsheimer, se non si dovesse coinvolgere anche la NATO nella responsabilità della scelta di Putin ha risposto che non era affatto d’accordo con i due pur eminenti studiosi: “Il problema della loro argomentazione è che assume che se la NATO non si fosse espansa la Russia non sarebbe la stessa o molto vicina a quella che è oggi. Quello che accade oggi in Russia non è una sorpresa. Non è una qualche deviazione da un modello storico.”

La storia della Russia, almeno da Pietro il Grande a oggi, è stata caratterizzata da grandi vittorie militari contro tentativi d’invasione (contro Carlo XII di Svezia, contro Napoleone, contro Hitler), ma anche da ripetute aggressioni e invasioni (contro la Polonia nel 1830 e 1863, contro l’Ungheria nel 1848; di nuovo a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968; contro la Cecenia nel 1999-2000, la Georgia nel 2008, la Crimea nel 2014, per non parlare della guerra civile che ha coinvolto l’Ucraina nel 1919-20). Se il comune denominatore delle guerre di difesa era scontato, esso è in realtà presente anche nelle guerre di aggressione: ed è stato il tentativo di colpire in anticipo per preservare lo stato russo da influenze liberali, occidentali e democratiche.

La grande differenza tra oggi e il passato è che sia nell’epoca zarista sia nell’epoca sovietica esisteva un sistema di principi e valori (la monarchia russa e la chiesa ortodossa, il comunismo) cui il potere poteva fare riferimento per richiamare il popolo al consenso e all’accettazione, magari passiva, del proprio dominio, un sistema su cui si basava l’identità collettiva che lo zar o il partito comunista intendevano rappresentare.

Oggi nella Russia di Putin manca un’identità nazionale, che in Russia non c’è mai stata perché l’identità era quella imperiale dello zarismo o dell’Urss, che tuttavia si fondava su una superiorità russa sugli altri popoli. Ed è per questo che Putin ha avuto bisogno di inventarsi una nuova ideologia neoimperiale, diversa da quelle del passato anche se cerca di mescolare – con scarsa credibilità e con ideologi imbarazzanti come Dugin o Famenko – aspetti di quella zarista e aspetti di quella sovietica.

Putin nega non solo il diritto all’esistenza dell’Ucraina, nega che possa esistere come stato autonomo e come popolo indipendente rispetto al dominio del Rossij Mir, del «mondo russo» di cui Mosca simboleggia il centro; e che si allarga fino a comprendere almeno Bielorussia e Ucraina, anche se con un dominio indiretto come quello attuato a Minsk attraverso Lukaschenko, e che aveva cercato di attuare a Kiev con Yanuchovich.

È stata proprio la «rivoluzione della dignità» del 2014 in Ucraina, che ha ripreso e accelerato il percorso verso la democrazia che il paese stava compiendo dal 2004 (anno della rivoluzione «arancione», a creare il cortocircuito tra i due pilastri della politica russa: la paura del contagio democratico e la predisposizione aggressiva di un regime sempre più autoritario, che non poteva tollerare l’influenza di un paese alle sue frontiere sempre più orientato e collegato all’esperienza dell’Unione europea.

In questa logica non è stata la «minaccia» della Nato (ridicola perché i missili Iskander presenti a Kaliningrad possono colpire sette capitali europee, mentre quelli in Polonia o nei paesi baltici – e che l’Ucraina non avrebbe avuto per anni anche se si fosse iniziato il processo d’integrazione nella NATO – hanno una piccola gittata puramente difensiva) a preoccupare Putin, ma la democrazia, i diritti, il pluralismo e il mercato; anche se ha usato l’inesistente minaccia della NATO, cui ha aggiunto la necessità di combattere il nazismo in Ucraina (collegandosi così al mito più potente e quasi unico dell’identità russa, quella della Grande guerra patriottica), come strumento di mobilitazione contro un nemico invisibile ma capace di mantenere il controllo del consenso e del potere. Almeno finora.


Foto di Алесь Усцінаў da Pexels
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