Ricercatore per l’Osservatorio sulla Democrazia di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

 

La guerra in Ucraina è l’ultima crisi ad investire l’Unione Europea in un decennio che ha messo a dura prova la sua resilienza istituzionale. Si tratta di una crisi particolarmente difficile da inquadrare.

Mentre il soggetto della crisi economica era chiaramente l’economia, e il soggetto della crisi dei rifugiati erano le politiche migratorie, la guerra Ucraina sembra colpire l’UE sotto più fronti.

Sta emergendo una crisi economica, dovuta in parte all’inflazione importata (l’aumento del costo delle materie prime causato dalla guerra) e al futuro contraccolpo delle sanzioni sulla Russia: questo si lega alla crisi ambientale, e alla necessità di staccarsi dai carburanti fossili.

Vi è poi una crisi migratoria. In poco meno di un mese, la guerra ha sottratto più di 10 milioni di Ucraini alle loro case. Tra questi, 3 milioni di rifugiati ucraini sono stati accolti principalmente nei paesi Est europei confinanti, Polonia in primis. Potrebbe, infine, emergere una nuova crisi sanitaria, legata alla inevitabile diffusione di COVID tra i rifugiati.

 

È questo attributo ‘proteiforme’, cangevole, che rende la crisi creata dalla guerra in Ucraina qualcosa di particolarmente spaventoso per l’Europa.

Quasi ogni popolo ha inserito nella sua lore la figura del drago, un essere composto dagli attributi offensivi di creature terribili: le scaglie e il veleno dei serpenti, le ali dei pipistrelli, gli artigli dei leoni, e via dicendo. In questo senso, la guerra in Ucraina sembra un mostro creato prendendo in prestito gli attributi delle crisi degli ultimi dieci anni: l’insicurezza economica, le gravi conseguenze sociali e politiche dovute a enormi flussi di persone, la scarsa sicurezza dell’Unione davanti a rivolgimenti globali come il COVID.

Il ruolo dei draghi, nella mitologia, non è di per sé negativo: devono essere sconfitti per poter acquisire un tesoro o qualcosa che permetta all’eroe della storia di riuscire nella sua avventura. In questo senso, la guerra in Ucraina rappresenta la prova cruciale per l’Unione Europea per mettere a frutto le lezioni imparate in un decennio di crisi. Stiamo reagendo uniti o assistiamo al solito ‘ordine sparso‘ a cui siamo abituati?

 

Iniziamo guardando alla politica estera europea. Come terreno d’integrazione, la UE negli ultimi vent’anni ha fatto molti passi in avanti in termini di una politica estera comune. Nel caso della guerra in Iraq, gli Stati Membri si erano mossi individualmente. Lo stesso è successo in conflitti più recenti, come quello in Libia.

La risposta alla guerra in Ucraina è invece stata unanime e tempestiva: immediatamente a ridosso dell’invasione, il 23 Febbraio, il Consiglio Europeo ha approvato il primo round di sanzioni alla Russia; sono seguiti poi altri tre round di sanzioni. In questo senso, alcuni Paesi europei sono più esposti di altri alle conseguenze delle sanzioni, Germania ed Italia in primis.

Questo però non ha impedito che gli Stati Membri facessero fronte comune, specialmente con la decisione del 2 Marzo di escludere 7 delle principali banche Russe dal circuito bancario SWIFT; in questo caso i valori dell’Unione nel complesso hanno prevalso sugli interessi delle singole parti, mostrando la “solidarietà nei fatti” di cui parlava Robert Schuman.

Tra le conseguenze che richiederanno tempi più lunghi per dispiegarsi, si è tornati a parlare di una Difesa Comune Europea. In questo senso, l’invio di materiale bellico in Ucraina da parte dell’UE mostra un cambio di passo deciso, specialmente rispetto alle disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione contenute nell’articolo 21 del Trattato sull’UE, riferito alla cooperazione “al fine di preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale”.

L’UE, in questo caso, ha tracciato una distinzione netta tra “aggressore” e “aggredito“, sostenendo anche militarmente il secondo.

 

Civili ucraini cercano riparo durante un bombardamento

 

Per quanto riguarda la politica dei rifugiati, rispetto alla crisi del 2015 (che aveva il suo baricentro nel Mediterraneo), oggi i flussi riguardano prevalentemente i Paesi dell’area Visegrád. Non si tratta solo di flussi in entrata: accanto ai rifugiati che scappano dalla guerra, esistono flussi in uscita di lavoratori migranti ucraini che tornano in Ucraina per arruolarsi; l’aggiustamento quindi è molto più difficoltoso che in passato.

A differenza della crisi dei rifugiati del 2015, anche in questo caso sta emergendo solidarietà europea. Lato Stati Membri, i Parlamenti nazionali (come quello della Polonia, primo Stato UE per numero di rifugiati ucraini) stanno adottando pacchetti di legge per facilitare l’integrazione dei rifugiati ucraini nel tessuto sociale ed economico dei rispettivi Paesi; lato UE, si assiste nuovamente all’utilizzo della Politica di Coesione europea come strumento anti-crisi: il 16 Marzo, il Consiglio ha reso disponibili fondi europei per reagire alla crisi migratoria, consentendo flessibilità di spesa nei territori più colpiti da nuovi flussi migratori al fine di fornire assistenza ai rifugiati, aiutare nell’integrazione scolastica e affrontare l’impatto economico che deriverà dall’afflusso di nuovi rifugiati.

Anche in questo caso, gli Stati Membri non stanno muovendosi disordinatamente (come fu nel 2015), ma come un’unione. I valori e gli interessi dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, in questa crisi, sembrano essere gli stessi.

La crisi economica ed energetica è l’aspetto più complesso della crisi scaturita dalla guerra in Ucraina. Il dato che è circolato in questi giorni stima (nel 2019) stima al 41,1% le importazioni dell’UE di gas naturale dalla Russia, 26,9% le importazioni di petrolio, 46,7% quelle di carbone.

Vi è inoltre tutta una serie di beni che importiamo dalla Russia e che servono come “input” per altre produzioni. La guerra e le sanzioni comporteranno un aumento del prezzo di questi beni primari o intermedi. Il rincaro di beni (come l’energia) che servono da input per qualsiasi produzione, produrrà un aumento dei prezzi lungo tutte le filiere produttive, andando ad aumentare il costo della vita per i cittadini europei.

Questo apre una serie di domande cruciali per l’UE: dovremo abbandonare momentaneamente il Green Deal europeo e tornare a fonti fossili per impedire la perdita di potere d’acquisto dei cittadini europei e gli effetti negativi sull’economia? In questo caso, le conseguenze della guerra in Ucraina non sono ancora pienamente visibili.

Segnali positivi vengono dalle parole dell’Alto Rappresentante dell’UE Josep Borrell: la guerra in Ucraina ha consentito all’Europa di configurarsi come potenza geopolitica. In questo quadro “l’invasione dell’Ucraina dovrebbe fornire slancio alla nostra transizione verso le energie verdi. Ogni euro investito in rinnovabili a casa ridurrà le nostre vulnerabilità strategiche e aiuterà ad evitare un catastrofico cambiamento climatico”.

 

L’Europa sembra unita di fronte alla crisi ucraina come non lo è stata nel decennio di crisi che hanno preceduto questo conflitto. In ogni ambito, la solidarietà europea sembra aver prevalso sugli interessi nazionali. Inoltre, le istituzioni europee hanno mostrato di aver appreso dalle crisi precedenti: la risposta, in questo caso, non è stata solo unanime ma anche tempestiva.

Gli effetti sul lungo periodo della crisi sono più difficili da prevedere. In particolare, la crisi energetica ha il potenziale per ritardare o bloccare il Green Deal europeo, così come il potenziale per accelerarlo e renderci più autonomi, anche geopoliticamente.

Ad oggi, non ci sono elementi che propendano per una soluzione o l’altra. La scelta per l’UE è tra essere e non essere. Se l’UE riuscirà a non farsi sviare dai suoi propositi e a promuovere misure efficaci nella crisi ucraina, avrà superato pienamente la prova e ci saranno pochi dubbi sul fatto che possa configurarsi come un soggetto politico unitario di cui tenere conto nella sfera internazionale.

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