9 marzo 2022:

un raid aereo distrugge l’ospedale pediatrico di Mariupol, un bambino ucciso, molti feriti.

Dopo alcuni giorni muore la donna incinta immortalata nella fotografia che la mostra mentre esce  insanguinata dall’ospedale. Insieme a lei si spegne il bambino che ha in grembo. Altre donne e altri bambini vengono uccisi mentre fuggono.

Un’altra fotografia fa il giro del mondo e si imprime nella mente: quella dei corpi della madre e dei suoi due figli colpiti mentre cercano una via di fuga.

Accanto a loro gli zaini dei ragazzi, il trolley ancora in piedi… Le immagini rimandano a persone concrete con nomi, volti, oggetti di vita quotidiana che portavano con sé.

È questa una delle caratteristiche di questa guerra: il racconto fatto dalle testimonianze visive di chi la sta vivendo.

 

Effetti dei bombardamenti su Kiev, Ucraina

 

Si produce una sorta di identificazione con le vittime, un riconoscimento empatico della loro umanità, che difficilmente avviene quando le vittime sono trasformate in numeri, come ad esempio nel caso dei migranti annegati nel mare Mediterraneo in fuga dalla violenza dei campi libici.

Sono stati necessari molti anni per ridare un nome a coloro la cui identità fu sistematicamente cancellata nei campi di sterminio. Nel museo dello Yad Vascem a Gerusalemme una voce scandisce nome e date delle vittime della Shoah.

La voce registrata ci mette due anni e mezzo a pronunciarli tutti.

Sono i nomi, le biografie e le fotografie delle persone a tappezzare le pareti di quasi tutti i musei sorti in memoria dei genocidi e dei massacri di massa per restituire una storia e un’identità a coloro che furono letteralmente inghiottiti dalla violenza. Le vittime dei bombardamenti vivono invece prevalentemente nei ricordi di famiglia, nelle comunità, nei vicinati. Non è stato semplice celebrare la morte data dai liberatori.

Come accade oggi nella guerra contro l’Ucraina, è stata soprattutto la morte dei bambini a imporsi nella memoria delle comunità colpite. È il caso di Gorla (Milano), dove il 20 ottobre 1944 gli aerei centrarono la scuola del quartiere provocando la morte di 184 scolari, quasi tutti i bambini e le bambine del quartiere; il caso di Sonnino, piccolo villaggio del basso Lazio, in cui il bombardamento del 22 aprile 1944 causò la morte di 33 bambini ospitati in un istituto religioso; a Reggio Calabria dove il 21 maggio 1943 le bombe colpirono il brefotrofio uccidendo 55 bambini, 12 balie, 2 bambinaie e una suora.

In tutte le guerre, non una esclusa dalla seconda guerra mondiale in poi, sono i civili a morire in massa.

Dopo la prima guerra mondiale, di cui in questi giorni si celebra il drammatico inizio, era stato il soldato a costituire e occupare la rappresentazione della guerra. Questa è storia molto nota e ampiamente studiata: vennero eretti monumenti in ogni paese e città, tombe di militi ignoti, cimiteri di guerra…

Contro l’immagine agiografica del combattente eroico scrissero già allora altri soldati, che avevano vissuto l’esperienza della trincea e volevano testimoniare un’altra verità: la quotidianità della vita del soldato nella trincea in mezzo al fango, tra topi e cadaveri, l’inutilità e la casualità delle morti.…

Ma la memoria eroica ha anche celato la sorte delle popolazioni che si trovarono sulla linea del fronte in una sorta di terra di nessuno tra i fuochi dei nemici o in balia di eserciti occupanti come avvenne agli alsaziani, agli abitanti dei Balcani, ai trentini e ai veneti dopo Caporetto.

Solo in questi ultimi due anni, assaliti da un virus mortale, ci siamo ricordati della Spagnola che può ben essere annoverata tra gli effetti nefasti della guerra: un morbo che fece milioni di vittime in tutto il mondo (si calcola tra i 27 e i 100 milioni) sviluppatosi nell’ultimo anno della guerra, il 1918, con le nazioni unicamente intente allo sforzo bellico, alimentata dalle terribili condizioni dei soldati nelle trincee come delle popolazioni civili in preda a fame, freddo, drammatiche condizioni igieniche.

Irresponsabilità e sottovalutazione da parte delle classi dirigenti che invece di offrire assistenza imposero la censura su ciò che stava accadendo, mancanza di cure mediche, limiti delle conoscenze scientifiche furono le cause della spaventosa diffusione. Poi anche questa catastrofe fu oscurata dalla retorica della guerra, le vittime della Spagnola rimasero confinate nelle memorie familiari. Anche gli storici, concentrati sugli eventi militari e politici che caratterizzarono la Grande guerra, non ne hanno fatto tema di ricerca.

Dopo la seconda guerra mondiale fu impossibile nascondere le vittime civili che erano diventate la maggioranza: morti tecnologiche con i bombardamenti, morti nei massacri di massa e nei campi di sterminio. Un linguaggio mistificato ha provato a oscurare o a giustificare queste morti.

«Ostaggi dei combattenti» quando i nazisti fecero terra bruciata nei territori dell’Appennino che ebbero la tragica sorte di trovarsi sul fronte dove si combatteva la guerra partigiana. Morirono colpiti da una ferocia inaudita  neonati, bambini, donne, anziani, chiunque venisse trovato nel territorio che doveva essere «ripulito». A Pietransieri, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto per ricordare solo alcuni dei luoghi di stragi.

Le vittime dei bombardamenti erano invece «danni collaterali», un discorso giustificatorio usato in tutte le guerre da allora in poi e oggi riproposto da politici e militari russi: le bombe sono dirette verso obiettivi tattici, i civili che vengono coinvolti sono descritti come un danno involontario dovuto alle ragioni strategiche della guerra.

In realtà le bombe lanciate su infrastrutture e obiettivi situati al centro di spazi urbani colpiscono inesorabilmente le popolazioni che vi abitano e gli strateghi militari ne sono assolutamente consapevoli.

La scuola di Gorla fu centrata perché si trovava nel cuore di un quartiere operaio finito nel mirino dei bombardieri per le sue fabbriche.

Si pensi alla distruzione quasi totale dell’area prospicente il porto di Napoli, target prioritario fin dall’inizio della guerra.

Il discorso cela poi un altro aspetto strategico della guerra:  la volontà di terrorizzare le popolazioni attraverso i raid aerei diretti sulle città, provocando quello che negli stessi documenti militari e politici viene definito il «collasso morale» della nazione nemica.

Anche questo è tragicamente riproposto dalla strategia russa nell’aggressione all’Ucraina.

I ricordi di allora e le fotografie di oggi mostrano le persone piangere di fronte alle loro case distrutte. Si piange per la morte dei propri cari ma anche per la perdita irreparabile della casa: il luogo familiare, il rifugio intimo, lo scrigno di tutti gli oggetti e le memorie di una vita, a volte di più generazioni di vite.

Anni fa raccogliemmo la storia di una signora napoletana, fresca sposa nel ’43 con un bambino di quattro mesi. All’allarme era scappata di corsa nel rifugio e all’uscita la sua casa era «un montone di pietre».

«Io lo dico, ma mi sento male… ci mettemmo in cammino su quell’altro marciapiede dove si vedeva la casa, ci mettemmo lontano e ci mettemmo a guardare, ma chella nun ce steve cchiù, nun esisteve niente… Perché le bombe avevano fatto cadere tutto, tutta la casa e quel palazzo grande grande… nun ce steve niente cchiù, ce steveno sole muntune e prete… casa mia non c’era più…»

In un racconto lunghissimo e terribilmente efficace, che qui è impossibile riportare, la donna ha descritto i mobili costruiti dal padre ebanista, i vestiti del viaggio di nozze, il corredo ricamato che aveva preparato con tanto amore in sette anni di fidanzamento, tutti inghiottiti dalle macerie. Poi la vita negli anni successivi senza casa senza un letto, ospiti di parenti, costretti a mendicare anche i vestiti da mettersi addosso. Il senso di perdita non si è sopito negli anni e ritorna come un flashback.

Le immagini che ho raccolto con la storia orale o lette nei diari si affollano: le persone colpite al mercato a Isernia, in coda per macinare il grano al mulino in un piccolo paese del basso Lazio, il tram centrato con tutti i passeggeri a Napoli, gli abitanti di un quartiere operaio di Torino morti in gran numero sotto la chiesa dove speravano di ottenere protezione, i soldati occupanti che rapinano i contadini…

Le analogie con le storie che oggi leggiamo sui quotidiani o sui social media sono tantissime, impossibili da citare in un breve scritto.

Ma c’è un aspetto che mi ha colpito e che mi appare quasi come l’archetipo di una storia antica e universale della guerra: le lunghe file di donne in fuga con i figli, il ruolo delle madri.

Salvare i bambini significa salvaguardare il futuro del paese, la continuità della vita anche di chi sta combattendo. Significa in fondo proteggere una società perché possa un giorno rivivere nella sua vita quotidiana.

Gli addii alla frontiera ci fanno capire, tuttavia, la durezza della scelta: il drammatico dilemma tra l’abbandono dei mariti e la salvezza dei figli.

La lotta delle madri per la difesa dei figli è un elemento chiave nella narrazione della guerra. Emerge con molta forza nei  racconti orali.

La letteratura e il cinema ci hanno consegnato a questo proposito alcuni ritratti memorabili.

La maestra Iduzza Ramundo di Elsa Morante che lotta con tutte le sue forze contro la violenza della Storia per salvare il suo fragile piccolo nato dall’aggressione di un soldato tedesco, passando attraverso il bombardamento, la perdita della casa, lo sfollamento in tuguri miserabili, la ricerca affannosa di cibo.

La protagonista del film tedesco Germania pallida madre che, con il marito al fronte, partorisce una bambina sotto un bombardamento e poi vaga per la Germania distrutta fra bombe e violenze cercando cibo e sopravvivenza per sé e la bambina. La Ciociara di Moravia e di De Sica.

Todorov ha indicato fra le virtù che si oppongono al male «le virtù quotidiane delle donne», pratiche sociali ordinarie che permettono alla società di sopravvivere durante il conflitto e rialzarsi nel dopoguerra.

E a una figura di madre affida la rappresentazione della giustizia e della «bontà» in guerra.

«I giusti non cercano il bene ma praticano la bontà: aiutano un ferito anche se è nemico, nascondono gli ebrei perseguitati, recapitano la lettera dei detenuti. Una scena di Vita e destino ne illustra la comparsa: una donna russa tende un pezzo di pane al prigioniero tedesco, mentre egli aspetta di venire linciato. Questa bontà si incarna in modo emblematico nell’amore materno». (Todorov, Memoria del male)

Certo si rischia di fare della retorica, e io non vorrei perché detesto la retorica, ma di fronte a espressioni di machismo e di odio così estreme come quella del dittatore russo e del patriarca moscovita si è indotti a pensare che un mondo retto da madri potrebbe essere migliore.

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