Va di moda rievocare gli anni ‘70. Musica rock, pantaloni a zampa di elefante, crescita economica e persino inflazione. Qualche settimana fa i maggiori quotidiani nazionali riprendevano la crescita del PIL del 2021 come un grande successo, l’economia non cresceva così proprio dagli anni ’70, scrivevano.
Cresce anche l’inflazione, demonizzata da governi e banche centrali negli ultimi trent’anni. Sembrerebbe di essere tornati indietro nel tempo, eppure, da un punto di vista di politica economica, uno sguardo più attento rivela che in realtà gli anni ‘70 non sono mai stati così lontani.
Una crescita del PIL del 6,4% che altro non è che un timido rimbalzo concentrato nelle mani di pochi. Un’inflazione che negli anni ‘70 sapeva di lotta di classe e di aumenti salariali, mentre questa sa solo di case più fredde e salari sempre più bassi. Non ci sono migliori condizioni salariali, né migliori diritti per il mondo del lavoro. E, soprattutto, produciamo sempre meno. Lo Stato è e rimane il grande assente incapace di disegnare e portare a termine una programmazione industriale che detti una direzione al paese, cosa si vuole produrre, come si vuole farlo, con quali competenze. Negli anni ‘70 eravamo nel pieno della programmazione economica, le partecipazioni statali si facevano carico di un pesante processo di ristrutturazione industriale provocato dallo shock petrolifero e dalla crisi internazionale dell’acciaio; dunque, politica industriale e continui investimenti che erano accompagnati (e non a caso) da aumenti salariali e aumenti della produttività.
Il momento storico in cui ci troviamo a vivere ha delle similitudini solo nelle parole chiave. I diritti dei lavoratori sono sempre più erosi da fenomeni globali (delocalizzazioni e catene globali del valore) e locali (incapacità di politica e sindacato di rappresentare e tutelare la maggior parte dei lavoratori del nostro paese). Il sindacato è in una posizione molto diversa dagli anni ‘70, incapace di conquistare aumenti salariali e un salario minimo che tolga dalla povertà milioni di lavoratori (attualmente circa il 13% della forza lavoro). D’altro canto, la politica industriale è assente da almeno un trentennio – in cui ci siamo fatti sfuggire pezzi fondamentali della nostra industria, dall’automotive (all’inizio anni ’90 costruivamo oltre 1,4 milioni di automobili, ora meno della metà) alle telecomunicazioni, passando per il trasporto aereo e per la componentistica.
Anche l’inflazione – di cui sentiamo tanto parlare in questi mesi di lenta ripresa e in queste ultime settimane di guerra – non è sintomo che qualcosa accade nel mondo del lavoro, in altre parole i prezzi non si alzano perché ci sono salari più alti e maggiore domanda.
Come molti hanno raccontato in queste settimane, si tratta di un’inflazione “importata”, dovuta all’aumento (vertiginoso) dei costi delle materie prime e all’inceppamento delle catene globali del valore. I prezzi aumentano per lavoratori e imprese, ma l’altro lato della medaglia, quello “positivo” che implicherebbe migliori condizioni salariali, è assente. Un fenomeno tutt’altro che nuovo da quando una vera e propria demonizzazione dell’inflazione ha causato un radicale cambiamento in ambito di politiche economiche soprattutto a livello delle banche centrali. Proprio negli anni ‘70, le banche centrali decidono che il keynesismo – ovvero il controllo dei livelli di domanda globale tramite la politica fiscale per il perseguimento della piena occupazione – ha fatto il tuo tempo e pongono il controllo dei prezzi al centro degli obiettivi di politica economica.
In realtà, quando l’aumento dei prezzi è contenuto, o comunque seguito da un aumento dei salari, ciò indica un’economia dinamica, con maggior potere contrattuale dei lavoratori. In tal senso, la spinta inflazionista alla fine degli anni ‘60, con il picco nell’autunno caldo, e all’inizio degli anni ‘70, è stata anche segno di una dinamicità nell’economia, una lotta di classe per metterla in termini marxisti, con salari e condizioni lavorative in miglioramento. Oggi non c’è nulla di tutto ciò, anzi.
I salari in Italia non crescono, siamo l’unico paese in Europa in cui sono diminuiti del -2.9% dagli anni ‘90. La mancanza di adeguamento salariale all’inflazione, soprattutto in presenza di costi energetici molto alti, erode i salari reali (che indicano il potere d’acquisto effettivo, quanti beni e servizi si possono comprare), per i quali l’ISTAT certifica una riduzione del -1.3% nel 2021. Ciò significa anche che la ripresa post pandemia rischia di proseguire la tendenza accentratrice e non redistributiva. Su questa scia il rapporto Oxfam di qualche mese fa riporta per l’Italia un aumento di 13 miliardari in più e 1 milione di persone in più che vivono sotto la soglia di povertà dal 2019.
Politica industriale, lavoro e inflazione sono intrinsecamente collegati. Per esempio, l’assenza completa di politica industriale rispetto alla transizione ecologica pone l’Italia in una situazione di grande vulnerabilità rispetto a combustibili fossili, tra cui il gas. Per decenni i governi non hanno lavorato, per esempio, con aziende partecipate dallo Stato quali Eni, Enel, Terna, Snam e Saipem, tutti attori strategici per sviluppare una decisiva strategia per la decarbonizzazione. La politica industriale è la grande assente anche per quanto riguarda il mondo del lavoro. Quando le fabbriche chiudono e la deindustrializzazione pervade territori definiti un tempo la “locomotiva del paese”, se ne vanno lavori con buoni salari, con condizioni lavorative per cui si era lottato duramente, e in mancanza di una strategia qualcuno trova rimpiazzo in altri settori, spesso servizi pagati addirittura a cottimo (altro che anni ‘70!), qualcuno rimane a casa. Quando aziende come la GKN di Campi Bisenzio chiudono per delocalizzare altrove (e purtroppo i casi sono numerosi) non è solo un dramma per lavoratori e lavoratrici, si tratta di una scelta che ha un impatto sull’intero territorio, che in mancanza di una politica industriale sul lungo periodo è destinato a perdere capacità di innovazione e di produzione.
L’inflazione sembra destinata a crescere, causa anche lo scenario bellico che genera preoccupazione e sgomento per ragioni morali e pratiche.
L’Italia è il terzo paese al mondo che importa gas dalla Russia. Cosa succederà? Ma soprattutto, chi pagherà le conseguenze di questa situazione?
Un innalzamento dei tassi e un processo di austerità farebbero collassare lavoratori stremati da perdite lavorative e umane, periodi di cassa integrazione e restrizioni. Dunque, l’intervento governativo deve andare in direzione espansiva. Bisogna proseguire con gli investimenti pubblici, spingere sulla domanda interna che ormai sembra chiaro essere l’unico motore per una crescita duratura e più equa e, allo stesso tempo, tassare quegli extraprofitti di aziende che hanno guadagnato sia dalla pandemia che dall’aumento del costo dell’energia. Lo sforzo politico ed economico deve essere riorientato a vantaggio di tutti coloro rimasti ai margini del mondo lavorativo, per un miglioramento salariale e di quei servizi (e diritti) universali che fecero degli anni ‘70 un periodo di lotte e conquiste.