Per risalire all’origine della definizione di “distretto industriale”, bisogna tornare indietro nel tempo, alla seconda metà del XIX secolo, e spostarsi nel Regno Unito, in particolare nei luoghi delle produzioni tessili di Lancashire e Sheffield. Fu proprio osservando quelle realtà che l’economista inglese Alfred Marshall coniò questo termine per descrivere “un’entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in un’area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza”. Una definizione che già allora coglieva il forte nesso tra un determinato territorio e le competenze e relazioni che ivi nascono e si alimentano vicendevolmente. Proiettata ai nostri giorni, questa definizione si arricchisce e tocca trasversalmente argomenti quali globalizzazione, internazionalizzazione, innovazione, sino a includere i concetti di efficienza produttiva, economie di scala e sviluppo di conoscenza.
Il nostro Paese non è stato il primo ad aver visto nascere e consolidarsi un modello industriale basato su logiche di rete. Ne rappresenta, tuttavia, un caso peculiare: pensiamo all’importante saggio di sociologia industriale di Charles Sabel e Michael Piore,” The Second Industrial Divide”, che identificava nell’esempio italiano il paradigma industriale del nuovo millennio. L’Italia vede tale modello assumere un ruolo sempre più significativo a partire dai tardi anni Settanta: gli anni in cui le nostre PMI diventano protagoniste di nuove esperienze di organizzazione produttiva, basate su collaborazione e flessibilità e che alimentano lo sviluppo dei territori, grazie a una sapiente valorizzazione delle tradizioni del saper fare locale.
Un approccio che ha rappresentato, per lungo tempo, un tratto distintivo del tessuto produttivo italiano: il Made in Italy che – solo per fare alcuni esempi – passa per il Veneto (l’ottica bellunese, la meccanica vicentina, l’inox trevigiano, il calzaturiero della Riviera del Brenta), l’Emilia Romagna (una Regione che, oltre ai due poli tecnologici, conta ben sette distretti agro-alimentari, otto nella meccanica, tre nel sistema moda, due nel sistema casa) o le Marche (le calzature di Fermo, i mobilifici di Pesaro, l’elettronica di Fabriano e il polo industriale trasversale di Civitanova) e include cluster e distretti high-tech di eccellenza, come quelli del settore aerospaziale in Lombardia, in Toscana, nel Lazio, in Abbruzzo, in Campania, in Puglia o in Basilicata, che consentono al nostro Paese di operare nella parte alta della catena del valore globale.
Un approccio che, tuttavia, ha dovuto affrontare non poche sfide. Se ne evidenziano tre in particolare, per i loro impatti – a volte contingenti, in altri casi strutturali – sull’organizzazione produttiva.
Prima fa tutte, la globalizzazione. A partire dall’ultimo ventennio del XX secolo, la crescita esponenziale del commercio internazionale è andata di pari passo con la delocalizzazione delle produzioni verso Paesi e Continenti (Asia prima fra tutti), caratterizzati dal basso costo della loro manodopera e dalla capacità di esportare sui nostri mercati, a prezzi concorrenziali, beni e servizi in quasi ogni settore. Per restare al passo con la competizione globale, le imprese italiane, e le realtà distrettuali innanzitutto, hanno dovuto investire risorse – materiali e immateriali – puntando su internazionalizzazione, innovazione e competenze altamente qualificate.
Un percorso lungo e complesso, reso nel tempo ancor più articolato da un’ulteriore sfida: le due grandi crisi finanziarie del 2008 e del 2011. Nel 2008, la “Grande Recessione” – innescata dalla crisi dei mutui subprime del mercato immobiliare statunitense – si è tradotta per il nostro Paese in una forte contrazione tanto delle esportazioni (storicamente uno dei punti di forza dell’economia nazionale) quanto della domanda interna (diretta conseguenza della riduzione del potere d’acquisto delle famiglie). Tre anni dopo, la crisi del debito sovrano europeo rendeva più arduo l’accesso al credito presso le banche, con evidenti ripercussioni negative ancora una volta sulla domanda interna, ma anche e soprattutto sugli investimenti da parte delle imprese.
Il terzo fattore sfidante con il quale i distretti industriali sono stati chiamati a misurarsi è quello più strutturale e che resta, ancora oggi, un tema centrale: l’innovazione tecnologica, in particolare quella legata alle ICT e alla digitalizzazione. Fattore strutturale, poiché richiede un cambio di paradigma, azzerando le distanze tra tutta una rete di relazioni ma anche di conoscenze, superando i confini tracciati dalla prossimità territoriale.
In altre parole, l’innovazione tecnologica ha assunto sempre più i caratteri della velocità e della discontinuità, ponendo sfide sempre nuove al tessuto produttivo italiano. Il saper fare derivante dalla tradizione, le innovazioni incrementali del learning by doing, le interazioni tra fornitori e imprese committenti operanti vicine spazialmente restano elementi peculiari e rilevanti del nostro modello produttivo.
Ma non bastano più. Oggi, le imprese vincenti sono quelle capaci di coniugare le competenze e le capacità locali con quelle globali, riuscendo a trarre vantaggio dalla loro messa a sistema.
Un cambio di paradigma che ci riporta al presente, all’emergenza pandemica e all’impegno eccezionale che il nostro Paese e l’Europa stanno affrontando per risolvere e superare le conseguenze di uno shock senza precedenti. Nel 2022, sappiamo che la globalizzazione e la diffusione delle tecnologie digitali rappresentano una straordinaria occasione di scambio e condivisione di conoscenze, competenze e capacità. Ma siamo anche consapevoli che l’interconnessione globale ci rende più fragili, più esposti alle conseguenze capillari di una crisi sanitaria o di uno shock finanziario, propagando, in tempi esponenzialmente più rapidi i loro effetti in ogni angolo del pianeta.
In questo scenario, qual è la vera sfida del modello economico italiano e soprattutto dei suoi distretti industriali?
Come confermato dalla tredicesima edizione del rapporto annuale della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo (aprile 2021), le filiere distrettuali continuano a rappresentare un tratto imprescindibile del tessuto produttivo nazionale, anche e soprattutto in una fase di difficoltà come quella che stiamo vivendo. Nonostante lo shock della pandemia, «in presenza di competenze diffuse, il “gioco” virtuoso di concorrenza e cooperazione tra attori della filiera ha consentito a molti distretti di competere con successo all’estero o di collocarsi stabilmente nelle catene globali del valore». Un modello che, per continuare a essere vincente, deve puntare su formazione e trasferimento tecnologico: le due chiavi per favorire l’accelerazione degli investimenti nel digitale e nel green, pilastri del NextGenerationEU, il più ingente piano di misure di stimolo mai finanziato in Europa, per ricostruire il tessuto socio-economico del Vecchio Continente dopo la pandemia di COVID-19.
Competence Center, Digital Innovation Hub, Istituti Tecnici Superiori (ITS) e Corporate Academy possono rappresentare la via italiana per sviluppare un sistema innovativo ed educativo che risponda alla domanda di tecnologia e di capitale umano da parte delle imprese italiane.
In altre parole, il modello distrettuale, come prefigurava già molti anni addietro l’economista italiano Giacomo Beccatini, può, ancora una volta, tornare a essere un elemento di traino e sviluppo del rinnovamento italiano, partendo dal ruolo chiave di innovazione, conoscenza e capitale umano. Oggi, le ingenti risorse che abbiamo a disposizione grazie al PNRR (il piano italiano nell’ambito del NextGenerationEU) rappresentano la più grande opportunità per imprimere una svolta decisiva in tale direzione.
È in questo scenario di – tra gli effetti ancora vivi delle crisi di ieri e le scelte decisive per proiettarsi al domani – che si colloca il ciclo di incontri «Tempi Moderni 2050», promosso da Fondazione Leonardo Civiltà delle Macchine e Fondazione Giangiacomo Feltrinelli: un’iniziativa per tornare a confrontarsi e dibattere sul modello distrettuale e sull’importanza delle competenze diffuse dei nostri territori per una crescita realmente sostenibile e inclusiva del nostro Paese.
Un confronto che passa attraverso tre luoghi chiave del saper fare italiano: la provincia di Varese, che ha saputo trasformare ed evolvere le proprie tradizioni manifatturiere nel tessile e nella meccanica, fino a diventare oggi un polo di eccellenza per il settore dell’Aerospazio; Lecce, che racconta la capacità di innovare e sviluppare le proprie filiere nel settore delle energie rinnovabili, con l’ambizione di diventare un vero e proprio modello per la transizione verde; e Bologna, tra le culle del modello distrettuale italiano, grazie alle sue best practice nel creare sinergia fra patrimonio produttivo e formazione.
Tre realtà che raccontano la capacità di combinare tradizione manifatturiera e artigianale, contaminazione tra conoscenze e competenze diverse e costante attenzione all’innovazione. Tre tappe di un percorso che può rappresentare la via italiana al nuovo paradigma produttivo ed economico, sempre più green e digitale.
Foto di Marcin Jozwiak da Pexels