Il 17 febbraio 1992 il Presidente del Pio Albergo Trivulzio, il socialista Mario Chiesa, veniva arrestato in flagranza di reato, mentre si accingeva a ricevere in contanti la prima parte di una tangente da uno dei fornitori della casa di riposo milanese.
Era il primo atto di “Manipulite”, cioè di quel complesso di indagini e inchieste che avrebbe portato allo scoperto un fitto e sistematico intreccio fra poteri pubblici e interessi privati, fra politica ed economia, che nel breve arco di tempo di un paio di anni avrebbe condotto alla fine della cosiddetta Prima repubblica, quella che gli storici contemporanei avevano definito la “Repubblica dei partiti”.
Corruzione di politici e funzionari pubblici da parte di imprenditori privati e concussione di imprenditori e soggetti privati da parte di esponenti o emissari dei partiti: erano questi i due fenomeni illegali che contribuivano a determinare l’esistenza di un vero e proprio sistema di relazioni illecite che avevano inciso profondamente sulla società italiana, producendo pesanti distorsioni nel funzionamento sia del sistema politico sia del sistema economico.
Di Tangentopoli, come venne anche chiamato l’universo di illegalità che venne alla luce grazie alle indagini di quegli anni, per dare un’efficace idea della sua straordinaria pervasività, che andava ben oltre e al di là dell’epicentro milanese in cui venne in un primo momento alla luce, ricorrono in questi giorni i trent’anni. È quindi lecito oggi, a distanza di un tempo che in linea di principio dovrebbe essere sufficiente a permetterne una valutazione per quanto possibile oggettiva e distaccata, cercare di fornire una lettura di ciò che questo fenomeno è stato, oltre che tracciare un bilancio di ciò che esso ci ha lasciato in eredità.
Le indagini di Manipulite, inaugurate già nel 1991 e proseguite – dopo l’arresto di Mario Chiesa – fino al gennaio 2002, anno in cui i corrispondenti reati finirono in prescrizione, portarono a ben 1.233 condanne per corruzione, concussione, finanziamento illecito dei partiti e falso in bilancio aziendale, alle quali si devono aggiungere 448 sentenze di “estinzione del reato”, di cui 423 per scadenza dei termini massimi di punibilità. In questo senso,
Tangentopoli fu un vero e proprio terremoto, che dal punto di vista della contingenza storica si combinò con altri importanti eventi che avvennero in quello stesso frangente temporale, determinando quella che da un punto di vista analitico può definirsi una vera e propria congiuntura critica e crisi di sistema.
Nel 1989 era crollato il Muro di Berlino e così stava finendo l’epoca della Guerra fredda, che fino a quel momento aveva rappresentato un vincolo internazionale stringente per quella convention ad excludendum verso il PCI che aveva impedito all’Italia di sperimentare l’alternanza di governo e che solo la convergenza fra Moro e Berlinguer, drammaticamente interrotta dall’uccisione del leader democristiano ad opera delle Brigate rosse, aveva cercato di favorire nella stagione del “compromesso storico”. Con la fine del bipolarismo USA/URSS veniva anche meno la rendita di posizione della DC come partito di maggioranza relativa funzionale ad arginare l’avanzata delle forze politiche di sinistra, a cominciare proprio dal PCI. E su questo importante cambiamento, a livello internazionale e interno, si innestava la crisi di legittimazione dei partiti protagonisti della cosiddetta Prima repubblica, e con essi la crisi di quel sistema, che il PCI aveva in parte cercato di anticipare con la svolta della Bolognina e con la nascita del PDS, mentre gli altri partiti dell’arco costituzionale, a partire dalle forze di governo, avevano dovuto subire in tutte le sue conseguenze, a partire dal Referendum del 1991 sull’abrogazione delle preferenze multiple per l’elezione della Camera, che aveva ottenuto il 95,6% dei consensi con una partecipazione al voto superiore al 60%. Il sistema politico e dei partiti entrava perciò in crisi già prima di Tangentopoli. Sebbene solo nel 1993, un nuovo Referendum sull’abrogazione della soglia per l’attribuzione diretta dei seggi nei collegi uninominali per l’elezione del Senato avrebbe assestato il colpo di grazia definitivo al sistemaelettorale proporzionale, che fino a quel momento aveva regolato la competizione politica fra i partiti della cosiddetta Prima repubblica in condizioni di democrazia bloccata.
Sempre nel 1992, con il Trattato di Maastricht si inaugura anche il percorso che di lì a dieci anni avrebbe dovuto portare all’introduzione dell’euro. E i criteri di convergenza stabiliti dal trattato per fissare le tappe verso l’integrazione monetaria (principalmente inflazione e tassi di interesse contenuti, rapporto debito/PIL entro il 60%, rapporto deficit/PIL entro il 3%) mettevano drammaticamente a nudo le difficoltà di un’economia, come quella italiana, che a partire dagli inizi degli anni Ottanta era vissuta al di sopra delle proprie possibilità, trovando nel debito pubblico le condizioni per assicurare consenso alle formule quadri/penta partito di governo, costruite nel segno di una serrata competizione fra PSI e DC, giocata prevalentemente sul terreno dell’uso clientelare delle risorse pubbliche. Inutili erano state le misure prese rispettivamente dalla Banca d’Italia, attraverso l’innalzamento dell’1% del tasso ufficiale di sconto, e dal governo Amato, con un taglio alla spesa pubblica di 7.500 miliardi e un prelievo forzoso del 6 per mille sui depositi bancari.
Per l’Italia la strada verso l’integrazione monetaria si mostrava fin da subito in salita, con un’economia che, costretta a scontare il crollo della produzione industriale, una crescente disoccupazione e la fuga di capitali all’estero, arrancava vistosamente dietro a quella di molti altri paesi europei.
Così, proprio negli anni fra il 1989 e il 1992, maturavano un insieme di condizioni, sul piano internazionale, sul piano politico-istituzionale e sul piano economico, per una crisi di sistema dalle proporzioni inedite per il nostro paese. Ma ciò non è tutto: a questi fattori, più che sufficienti a determinare la fine della cosiddetta Prima repubblica, andavano ad aggiungersi le stragi di mafia che nel 1992, dopo l’omicidio all’inizio dell’anno del plenipotenziario della corrente andreottiana in Sicilia Salvo Lima, colpivano Falcone e Borsellino e nel 1993 prendevano di mira con attentati dinamitardi via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano, San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma. Una catena di episodi criminosi che successive indagini dimostreranno essere collegate da una medesima strategia che sarebbe stata intesa ripristinare, a seguito della crisi che stava attraversando soprattutto la DC (e il suo gruppo dirigente) in quanto partito di maggioranza relativa, la vecchia logica di compromesso e convivenza con quelli che si annunciavano essere i protagonisti della nuova stagione politica.
La straordinaria congiuntura critica che con Tangentopoli manifesta e scatena i suoi effetti più dirompenti, impattava su una democrazia e un sistema dei partiti già in forte difficoltà, incapaci di gestire il bilancio dello stato entro un percorso di crescita senza eccessi di indebitamento, sotto la sfida di un movimento che attraverso la riforma della legge elettorale chiedeva un rinnovamento della politica, ormai privo delle rendite di posizione giustificate sul piano internazionale che avevano alimentato un sistema di governo gestito attraverso l’uso clientelare delle risorse pubbliche e che in certi settori si avvantaggiava anche della continuità con ambienti illegali e mafiosi. E la classe politica che si trova ad affrontare questa situazione, proprio in quel frangente manifesta tutta la sua inadeguatezza, non soltanto ad attraversare quel passaggio critico, ma anche a governare la fase di cambiamento che da esso stava prendendo il via.
A distanza di trent’anni possiamo infatti affermare che la lunga e incompiuta transizione politica e istituzionale che si inaugura nel 1992 non ha di fatto trovato uno sbocco positivo.
Con ciò, la congiuntura critica che in quella fase si è configurata, che al pari di ogni congiuntura critica si presenta sotto la forma di una biforcazione, consentendo diverse possibili traiettorie di evoluzione, si è conclusa senza produrre quelle trasformazioni che avrebbe potenzialmente potuto alimentare. I falliti tentativi di riforma costituzionale e l’alternarsi di leggi elettorali che si sono succeduti nel tempo dall’approvazione della legge Mattarella nel 1993 al referendum del 2016 sulla legge di revisione costituzionale Renzi–Boschi rappresentano un evidente riscontro empirico, oltre che un inappellabile giudizio, su una classe politica incapace di avere una visione adeguata alle necessità di aggiornamentoistituzionale richieste da una democrazia che, all’epoca di Tangentopoli, risultava vittima di una crisi già in corso dalla fine degli anni Ottanta. A queste occasioni mancate, ha finito col fare da contraltare una profonda trasformazione del ruolo del Presidente della Repubblica, che da garante della correttezza istituzionale del processo politico si è progressivamente trasformato in parte politica attiva capace di intervenire in ultima istanza per fronteggiare le difficoltà dei partiti nella formazione delle coalizioni di governo, oltre che per garantire la tenuta istituzionale del paese nelle sedi internazionali.
Un altro importante lascito di Tangentopoli, che peraltro ha contribuito ad accrescere la natura anomala del nostro sistema politico, è la crescente politicizzazione del sistema giudiziario e della Magistratura. È infatti a partire dalle indagini di Manipulite, alle quali comunque non va tolto il merito di aver portato alla luce le disfunzioni di un sistema politico strutturalmente inefficace poiché corrotto, che la Magistratura italiana inizia ad esercitare una vera e propria funzione supplente nei confronti della politica.
Ciò che ha avuto come principale conseguenza la diffusione di logiche partisan all’interno del mondo giudiziario, fino a corromperne la natura stessa di terzietà e l’imparzialità degli organi di autogoverno, a un punto tale da rendere ormai improrogabile e necessaria una radicale riforma della giustizia.
Infine, Tangentopoli ha prodotto importanti conseguenze sui partiti politici. Non solo per il fatto che ha in ultima istanza decretato la fine della cosiddetta Prima repubblica, che era anche la “Repubblica dei partiti”. Ma perché ha contribuito ad amplificare oltre misura, soprattutto nel giudizio dell’opinione pubblica, l’immagine di partiti già attraversati da una profonda crisi di legittimazione rispetto alla loro concreta funzione in una democrazia rappresentativa. Da Tangentopoli a oggi, infatti, siamo stati costantemente accompagnati da una retorica del discorso pubblico nella quale i partiti venivano intesi come un intralcio per la vita democratica. Viceversa, i partiti restano i protagonisti indispensabili ed essenziali di qualsiasi forma di democrazia rappresentativa. La democrazia delle leadership, pur rappresentando una peculiare manifestazione della politica nella società dell’informazione e oggi dei social media, non sembra di per sé sufficiente ad assicurare un processo di governo sufficientemente stabile. La girandola delle leadership a cui abbiamo assistito negli anni della cosiddetta Seconda repubblica, e alla quale ancora oggi continuiamo ad assistere, di frequente accompagnata da discutibili capacità individuali di governo, si sta chiaramente dimostrando un fattore critico e di instabilità rispetto al più equilibrato funzionamento delle istituzioni democratiche. È se è vero che le leadership sono indispensabili, è altrettanto vero che esse possono risultare più efficaci in contesti istituzionali in cui vi sono anche partiti organizzativamente strutturati e dotati di meccanismi di democrazia interna. La stessa reiterata surroga delle funzioni di rappresentanza politica e di governo a poteri dello stato originariamente destinati ad esercitare ruoli di garanzia (quali la Presidenza della Repubblica e la Magistratura), che rappresenta evidentemente un’anomalia democratica, è in sostanza favorita dal vuoto politico che si manifesta in presenza di partiti politici deboli.
Trent’anni dopo Tangentopoli, sarebbe quindi il caso di ricominciare dai partiti, in quanto strumenti fondamentali della vita democratica.
Ripartendo dalle regole che dovrebbero disciplinarne il funzionamento, dalle modalità di selezione delle candidature alle forme del finanziamento, pubblico e privato, e alle strutture che ne organizzano l’elaborazione culturale e programmatica, come centri studio e fondazioni. Perché, come dovrebbe averci insegnato Tangentopoli, una politica organizzata intorno a partiti deboli, che per sopravvivere si fanno strumento di ricatto nei confronti di una società civile fragile e pertanto alle loro dipendenze, non rappresenta soltanto l’anello debole di una democrazia incompiuta, ma è anche il principale ostacolo alla crescita e allo sviluppo di una società.