Università di Milano-Bicocca

Le prime manganellate non si scordano più. E scavano dentro, nel profondo, erodendo quel sentimento di fiducia nelle istituzioni che, soprattutto quando si è giovani, non è per nulla scontato. Per questo le manganellate rischiano di fare male non solo a chi le riceve, ma al sistema politico-istituzionale nel suo complesso.

I commenti di questi giorni rischiano di farci percepire solo un aspetto della questione, quello più scandaloso dei colpi dati e delle ferite ricevute. Quando la violenza prende la scena, ogni riflessione si fa più difficile e sembra possibile solo schierarsi pro o contro. Guardiamo i video delle manganellate che circolano su internet e sui social e pensiamo così di sapere tutto su com’è andata. E invece abbiamo solo una vaga idea della meccanica di alcuni degli eventi critici accaduti. Nulla di più che delle immagini, lo sconcerto che suscitano e la necessità di entrare in fretta nella “comfort zone” per cui la polizia è il male, oppure no, agisce sempre per il meglio.

Studio le polizie da molti anni e cerco di non cadere più in queste semplificazioni.

Le polizie sono istituzioni immerse in reticoli istituzionali, che hanno una relazione complessa con il potere e che vivono di legittimazioni politiche e sociali. Istituzioni a cui è affidato il compito di usare la forza per garantire l’ordine.

Il fatto è che l’uso della forza di polizia è sempre problematico e, soprattutto nelle democrazie, crea scandalo. La polizia serve a contenere la violenza sociale attraverso l’uso di una forza che, a sua volta, deve essere limitata alla stretta necessità. Altrimenti diventa violenza illegittima. Si tratta dunque di trovare un equilibrio tra diritti individuali ed esigenze di ordine.

Ma chi fissa il punto di equilibrio, quel limite che consente alle polizie di non usare più forza di quella che è accettabile? Vale la pena da subito evidenziare che molto di ciò che accade nelle piazze dipende da ciò che si dice e si fa lontano da quelle piazze.
Provo a spiegarmi.

Poliziotti e Carabinieri non sono automi, corpi senza testa e senza emozioni. Qualcuno ha detto in questi giorni che non sono dei manichini e non possono essere considerati semplici bersagli di insulti e lanci di bottiglie da parte di manifestanti. Ed è vero. Sono persone che provano emozioni, che hanno vissuto esperienze personali e professionali e che hanno un proprio modo di essere e di pensare, e quando si trovano di fronte a manifestanti, si fanno un’idea di come devono agire per tutelare l’ordine

Dire che non sono degli automi, tuttavia, non è sufficiente per giustificare ogni loro reazione violenza. Perché in una democrazia gli operatori di polizia devono essere formati a gestire la rabbia, a non cadere nelle provocazioni e a distinguere le situazioni e i manifestanti. In Italia c’è una scuola apposita, quella sull’ordine pubblico che ha sede a Nettuno, istituita non a caso dopo la pessima gestione dell’ordine pubblico a Genova nel 2001 in cui venne ucciso un giovane manifestante, Carlo Giuliani. E poi c’è la Digos, che media con i manifestanti, raccoglie informazioni e segnala i rischi. E ci sono i dirigenti che coordinano le operazioni. Insomma, non tutto si gioca sulla relazione faccia-a-faccia tra poliziotti e manifestanti.

Non sono automi, dunque, e neppure manichini. Gli operatori di polizia, da quelli che si prendono insulti e sputi a quelli che coordinano e dirigono, agiscono interpretando ciò che sta accadendo alla luce delle indicazioni che provengono dalla società, dalle istituzioni e dalla politica, o anche semplicemente delle aspettative che si sentono addosso.

Chi sono i manifestanti, perché si trovano in piazza e quale legittimità hanno a protestare? Sono domande che incidono fortemente sulle scelte operative sul campo. Non servono direttive ministeriali o dichiarazioni esplicite: le polizie filtrano il clima politico e sociale del momento in funzione del compito che è loro assegnato.

Così, l’uso della forza certamente dipende dalla meccanica degli eventi in piazza, dalla emotività che suscita e dalla formazione degli operatori, ma la facilità o meno del ricorso alle maniere forti, soprattutto di fronte a manifestanti giovani, poco organizzati ed evidentemente privi di mezzi offensivi, dipende molto anche da come gli operatori si rappresentano quella piazza in cui sono chiamate a intervenire.

E allora arriviamo alle manganellate. Che i giovani diano fastidio per la loro vitalità travolgente è un tema di ordine pubblico da sempre. Ma qui bisogna essere più specifici per capire il cambio di passo nella gestione delle piazze.

È dall’inizio della pandemia che i giovani sono tornati a essere additati come irresponsabili e pericolosi. Hanno subìto una compressione inedita delle loro libertà e della loro vitalità e, in tutta risposta, hanno subìto più di altri lo stigma tipico degli untori perfino quando chiedevano di andare a scuola (per dire!). “Zitti e buoni”: non è certo casuale il successo planetario di una canzone in pieno stile rock. Un grido ribelle per tentate di uscire dall’angolino dietro la lavagna in cui si è stati cacciati.

D’altra parte, la compressione del diritto di manifestare non è solo una questione recente giustificata dalle restrizioni anti-Covid. Sono molti gli studi che ricostruiscono in modo puntuale le forme di controllo del dissenso che, a partire dall’emergenza di sicurezza urbana dell’ultimo quarto di secolo, hanno contraddistinto l’evoluzione del diritto amministrativo punitivo. Mi limito a citare l’ultimo decreto sicurezza Salvini nella parte relativa all’ordine pubblico durante le manifestazioni. Era il 2019 e la pandemia era solo un buon tema per romanzi distopici. Eppure il fastidio che dà chi protesta (e, si badi bene, le manifestazioni fino a quel momento erano soprattutto legate alla perdita del posto di lavoro) è talmente forte da portare a inasprire disposizioni contenute nel Testo Unico di Pubblica Sicurezza di epoca fascista.

E poi c’è l’alternanza scuola-lavoro, che fin dall’inizio è stata considerata intoccabile, perché simbolica di una visione ideologica dell’educazione, del lavoro e della vita delle persone che si pretende essere l’unica a garantire il progresso. Sarà un caso che la morte di un giovane durante uno stage aziendale non abbia suscitato alcun dibattito finché gli studenti non hanno deciso di assumerla come emblema della loro protesta?

Infine, le prime manganellate hanno creato tutto sommato poco scalpore. Segno che in fondo i leader politici hanno preferito rimanere distratti dall’elezione del Presidente della Repubblica e non occuparsi delle ragioni delle proteste.

Bisogna capire che questo clima, che ho ricostruito in modo sommario, entra nel modo in cui le polizie sentono di dover agire sul campo. Sono immerse nella stessa società che pretende di avere giovani “zitti e buoni” che accettino un’educazione che rifletta forme di precariato lavorativo; interpretano le disposizioni ordinamentali nell’ottica di garantire un ordine che vede il dissenso sempre più fastidioso e antieconomico; sono sensibili alle indicazioni ma anche ai silenzi della politica.

Continuiamo pure a dividerci sulle manganellate date e sulle provocazioni ricevute, sui poliziotti buoni o cattivi, sui manifestanti innocui o infiltrati. Purché non ci si dimentichi che la meccanica delle piazze è intimamente legata alle dinamiche sociali e alle tendenze politico-istituzionali. Pensare che tutto si possa risolvere con un appello ai buoni sentimenti è tanto assurdo quanto pretendere che i giovani stiano nell’angolo più buio e insonorizzato della casa, possibilmente davanti a uno schermo. Con le buone o con le cattive. In fondo, il significato di quelle manganellate sta tutto qui.


Foto di copertina di Adam Scotti.

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