La corsa alle presidenziali francesi avanza e Parigi è lo scenario principe. Non sono opportune predizioni perché nessuno è stregone e anche i sondaggi non sempre sono tutti veritieri. Su una cosa sono concordi: un po’ più del 30% degli elettori tenderebbe alla destra estrema di Le Pen e – una parte esigua – di Zemmour. I dati continueranno a oscillare ma alcune cose è utile chiarirle.
Macron è, per certi versi, in una tenaglia in quanto deve parare l’ondata populista di estrema destra e tenere a bada la destra cosiddetta moderata del partito Le Républicains, che si è svelato un’incognita non prevista e orientata verso l’estrema destra con la nomina della propria candidata, Valerie Precresse, determinata a battersi.
Per questo il presidente in carica sta rilanciando alcune proposte dell’ex presidente Sarkozy, suo discreto e importante consigliere, come “l’immigration choisie” (“immigrazione scelta”) e politiche per il lavoro che accolgano il favore dei più “démunis” (i più svantaggiati).
La cosa certa è che Eric Zemmour, agitatore a destra di Le Pen, spericolato, quanto insidioso, ha fatto uno scivolone dopo il suo discorso delirante a Villepinte. Ne sono seguite violenze a opera dei Zouaves Paris, gruppo di ultraviolenti a lui vicini, ultraxenofobi e poco alfabetizzati se non per l’uso delle mani e delle spranghe. La polizia ne ha individuati alcuni ed arrestati. Ma Zemmour resta comunque un attore che fa rumore e che ha di fatto radicalizzato il dibattito sul tema cruciale dell’immigrazione e rispolverato il sacro zelo dei difensori della Francia “d’antan”.
L’identità – questa misteriosa calamita che definisce il sé individuale e collettivo, che distingue, unisce e anche separa e oppone – è difesa da tutti i partiti su registri diversi, ma dipende da come essa si disegna.
Identità significa anche coscienza della storia di ciascuno, viaggio nel proprio passato, nei suoi innesti e intrecci, immigrati compresi. Ma la sinistra è divisa, quasi immobilizzata, procede in disordine sparso. Questo è il punto.
L’arcipelago Zemmour
La campagna per le presidenziali di aprile, già iniziata da un pezzo, sembra riservare diverse sorprese e ha portato alla ribalta questo personaggio, ex giornalista, xenofobo, a destra della destra estrema, ambizioso e spericolato: Eric Zemmour.
Può sembrare una scheggia impazzita, un fenomeno da baraccone (e in parte lo è), che ha osato oltre ogni limite, ma si è imposto nel dibattito politico, riuscendo a scombinare equilibri consolidati fra le varie forze politiche e sbattendo sulla scena, se pure in modo delirante, alcuni temi brucianti quali l’immigrazione e la sicurezza. Soprattutto ha attenuato e tenta di cancellare la distanza fra la destra moderata e l’estrema destra, cosa nuova nella storia della quinta Repubblica e squilibrante per l’intero sistema politico.
Allora occorre capire qual è il sottobosco che lo ha fatto emergere tanto da porre la sua candidatura.
È un intreccio articolato: fra i suoi fidati collaboratori (che sono più di una cinquantina) si trovano alcuni giovani prima impegnati nella destra dei Républicains e ora desiderosi di una sferzata che possa scuotere; alcuni esponenti non di punta ma delle truppe del RN di Marine Le Pen e anche alcuni consiglieri regionali e qualche nostalgico del vecchio Front National, scontenti della normalizzazione del partito messa in atto dalla Le Pen. Non manca a Zemmour l’appoggio di alcune riviste di estrema destra che diffondono ai quattro venti la teoria xenofoba del “grand remplacement” (la grande sostituzione), pericolo mortale per la Francia che vuole mantenersi pura, e auspicano, facendo eco al nuovo leader, un “retour des chefs” (il ritorno dei capi) dovunque, nella società, nell’impresa, in politica. Ma soprattutto il suo partito, Reconquête, offre spazio a scontenti, delusi, personaggi a rischio di sparire, che possono così tornare sulla scena in questa fiammata di livore, di nazionalismo sfrenato e di rivincita volta a un passato buio, come nel DNA di tutti i “revanchisme”.
Atto di contrizione
Macron ha scelto il mantello largo dell’Europa da emendare di alcuni suoi limiti, come egli ha sottolineato in una sua conferenza stampa di oltre due ore, un’Europa che non può limitarsi a essere un insieme di scelte economiche o tecniche, ma deve divenire un conglomerato di “unité politique” che lotta contro ogni forma di sovranismo, con alcuni temi prioritari che la caratterizzino. Si tratta di un primo passo, non piccolo, poiché credo che la storia della Francia, come di altri Paesi, non possa essere semplificata o manipolata come la pubblicità di un prodotto da acquistare.
Ciascuna delle storie nazionali con il suo fardello di luci e ombre deve avere pari dignità nella variegata carovana europea perché solo così un organismo sovraordinato può esistere. Il nuovo presidente francese, quale che sarà, dovrà camminare su questi binari anche in vista del semestre di presidenza francese al Consiglio europeo.
Intanto il presidente Macron conduce la sua campagna, pur non essendo ancora candidato alle prossime elezioni di aprile, secondo una prassi che molti presidenti uscenti hanno seguito. Non perde infatti occasione per intrecciare già i fili sul fuso di quella che sarà la sua campagna, in questi mesi in cui i suoi avversari hanno già dichiarato la propria candidatura. Ed ha molto da dire, promettere, rettificare:
- togliersi di dosso l’immagine di un presidente “juppiterien”, imperioso, talora sprezzante e distante, che aveva segnato i primi tre anni almeno del suo mandato;
- costruire quindi una leadership per prossimità percorrendo il Paese in lungo e in largo, stando fra la gente, concedendosi conferenze stampa lunghe, lui che aveva la parola parca;
- riproporre l’idea di una unità e volontà propositiva vitale per la Francia e quindi combattere l’estrema destra come solo un ritorno a un passato di chiusura e divisione non degno della grandezza francese (Le Pen e Zemmour) e allo stesso tempo la destra agguerrita di Valerie Precresse (les Républicaines) orientata verso la destra estrema.
Ma, oltre a ciò, quello che va in scena in questi giorni è il suo atto pubblico di contrizione tanto da dire che a volte ha sbagliato: “J’ai appris à aimer mieux [les Français], à avoir plus d’indulgence, de bienveillance” (“Ho imparato ad amare meglio i francesi, ad avere più indulgenza e più benevolenza”); e ancora, che era nuovo alla politica quando è arrivato al potere, ma ora ha imparato. Per concludere che “Je suis plutôt quelqu’un d’affectif, mais qui me cache. Je suis plutôt quelqu’un de très humain, je crois” (“Io sono una persona piuttosto affettiva, ma mi nascondo. Sono molto umano, credo”). Una metamorfosi insomma.
Altri presidenti in passato l’hanno fatto: Chirac e Sarkozy, nel prepararsi a un secondo mandato, hanno chiesto scusa, ma in maniera più sobria, distaccata; lui, invece, Macron, vuole toccare le corde più emotive dei francesi e giocare un po’ sulla corda populista, un po’ con lo specchio della sua formazione presso il liceo dei Gesuiti di Amiens; fa ammenda e chiede ancora fiducia mettendo intanto a punto un progetto ampio, fortemente ancorato all’Europa e a una politica economica che mette al primo posto “le pouvoir d’achat” (il potere d’acquisto), tema importante per larghi strati popolari.
La vera battaglia è già cominciata.
Foto di copertina di vfutscher.