Non solo storia – Calendario Civile \ #29dicembre1951


Quando nel dicembre 1951 Ernesto Guevara parte con la Poderosa sa quello che lascia, non sa ancora cosa troverà. Ma sa che per saperlo deve incontrarlo, deve vederlo. Per soddisfare questo desiderio nessuno lo può fermare.
Se vogliamo avere una visione mitizzata della storia ci possiamo accontentare di questa emozione.
Se invece le vicende umane, nei momenti inquieti, ci servono per provare a capire qualcosa di noi, allora l’icona del viaggio non ci dà nessun aiuto. Dobbiamo andare un po’più in là e scavare in quell’esperienza.

 

Se vuoi conoscere il mondo devi incontrarlo, ma poi devi ripensarci.

“Un uomo che si rechi a una fiera ha l’animo colmo di speranza. Non ha idea di quali contrattazioni lo attendano e di ciò che potrà combinare. Vola come una freccia verso quella fiera, a tutta velocità. Non importunatelo, non ha tempo da perdere. Ma lungo la via del ritorno sa quali affari ha concluso e cos’abbia portato a buon fine. Ora non ha più fretta. Ha tanto tempo a sua disposizione. Non è il caso di affrettarsi. Può soppesare in tutta calma i risultati della sua spedizione. Può indugiare a raccontare a tutti ogni dettaglio della sua passeggiata. Chi ha incontrato alla fiera, che cosa ha visto, che cos’ha sentilo”.

 

Sono le parole di esordio di Tornando dalla fiera , con cui Shalom Aleichem, il più grande cantore della letteratura yiddisch racconta cosa significa andare a incontrare il mondo fuori casa. La fiera è ovviamente una metafora per indicare l’incontro, le traversie, le sorprese una volta che ci si lasci alle spalle (anche temporaneamente) il proprio mondo.
Appunto conoscere il mondo avviene solo incontrandolo.

Il viaggio, andando deliberatamente via da casa, lontano, ha molti volti: evasione, noia, desiderio di sapere. Ma anche: un tempo per prendere le distanze dal proprio presente, provare a “fare un bilancio”. E poi: volerne sapere di più, oppure dichiarare: “la vostra verità non mi convince”, e, perciò, “voglio misurare, vedere, confrontare, raccogliere informazioni, Ne riparliamo dopo. Ma la vostra versione dei fatti non mi convince”.

Nell’esperienza del viaggio sta la curiosità (non è così per Ulisse?) Alle volte sta un continuo conflitto con la realtà per ristabilire un ordine infranto, magari essendo fuori tempo massimo (non è così per Don Chisciotte?) Oppure sta un confronto con il presente consapevoli che il tempo che si ha davanti è poco. In questo caso per tentare di farsi un’idea del futuro la scelta è investire su se stessi in termini di curiosità. La conseguenza, anziché vivere il proprio tempo della vecchiaia con la tristezza o la malinconia, è cercare domande.

Cercare domande per capire il presente per non subire il futuro. Per orientarlo. Dunque si va via (mentalmente e non solo fisicamente) perché il presente non fornisce risposte e il passato non consente di trovare risposte soddisfacenti. Non è questa la molla riflessiva con cui Vittorio Foa chiude Il cavallo e la torre ?, quando scrive:

“Io so che il mondo non è bello, so anche che io sto perdendo le mie forze. Ma un vecchio non deve scambiare la sua debolezza con la debolezza del mondo: se egli non è più capace di sperare altri ne sono capaci. Credo che la nostalgia, che è un sentimento naturale della vecchiaia, non deve volgersi solo al passato. A me non dispiace che non ci sia più il passato, mi dispiace di non vedere il futuro di cui sono curioso”

Viaggiare non è dunque solo un tratto generazionale è, anche, conseguente a ritenere che il futuro si tratti di cercarlo; e che cercare futuro sia un modo per contribuire a scrivere un altro presente. Ma poi così come si è esigenti nell’andare lontano, si tratta di fare i conti poi con ciò che si è trovato, dove ciò che è diverso o estraneo non è stravagante, ma è un’opportunità per capire la vita di vite “che non sono la nostra” e per tentare di trovare un nuovo punto di equilibrio. Di nuovo al centro stanno le domande che ci facciamo, non le risposte “a-priori” che ci diamo.

Per questo ripensare è importante, senza rimanere vittime del “meraviglioso” che si è visto altrove, ma riportando quell’esperienza e le domande che hanno riempito il tempo di quell’esperienza alla propria vita quotidiana, confrontandola con ciò che si è visto, imparato, e ciò che è il proprio ordine di vita quotidiano, il proprio sapere, il senso comune del proprio habitat (culturale, sociale, civile,…).

Come scrive Ryszard Kapuscinski, nel suo In viaggio con Erodoto:

“Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile”.

 

Il “virus del viaggio” non è dunque avere il fascino dell’«esotico,» ma alimentare la propria inquietudine.

 

 

Dunque 29 dicembre 1951.

Ernesto Guevara parte. A noi di quel viaggio non è rimasta la cronaca scritta in tempo reale, ma le annotazioni successive. Latinoamericana è questo.

Quel viaggio, meglio ciò che noi leggiamo della cronaca di quel viaggio, come ci ricorda Valentina Colombi presenta i tratti di molte esperienze che guardate da lontano sembrano fughe (forse a una prima approssimazione lo sono anche) ma nel profondo sono la storia di come i protagonisti di quell’avventura, più generalmente di quel tempo «fuori casa» si interrogano sul loro presente, si sorprendono di ciò che incontrano, guardano e ascoltano persone per imparare e per capire. Spesso quella esperienza non rimane “dentro”, ma i protagonisti provano a mettere nero su bianco la oro esperienza che spesso il resoconto di una trasformazione.

In quell’atto di scrivere e di raccontare, comunque nella scelta di non tenere dentro le proprie sensazioni, emozioni, domande, non sta solo una rievocazione di una esperienza vissuta. Quell’esperienza si trasforma nell’atto di scriverla, e quindi non tanto di viverla quanto di riviverla. Perché magari all’inizio non consapevolmente, ma poi tornando a ripensarci, quella esperienza assume la fisionomia di un processo di rigenerazione. Ovvero segna una rinascita o una nuova nascita.
Perciò quando torna a casa o riprende il ritmo della vita precedente il viaggio, assume le vesti di un processo di iniziazione, un passaggio che non solo dà fondamento al dopo, ma dopo, a processo avvenuto appare come il momento fondante di quella «vita nuova». Comunque la scena dove “tutto ebbe inizio”.

Nell’esposizione del viaggio la conoscenza si svolge all’interno di una direzione lineare e successiva nel tempo, ma l’organizzazione del testo contiene un’idea di processo che più spesso si origina dalla ricostruzione à rebours dell’evento e delle sue singole unità. In ogni caso questo dato andrà assunto non come “falsità” o “alterazione” del testo, ma come indizio. Nel doppio senso: da una parte di metamorfosi e, dall’altra, di trasformazioni subite dall’Io narrante tra l’inizio della vicenda narrata e la sua conclusione. La tipologia è quella del “viaggio d’iniziazione” che è tale sia per com’è progettato e costruito, ma anche per le vicende, gli incontri e le storie e le situazioni che accadono o che avvengono nel corso del suo svolgimento.

La premessa che Guevara scrive, a viaggio concluso, nelle pagine di esordio di Latinoamericana è significativa e riassume gran parte del rapporto tra esperienza, scrittura e lettura, tra Io narrante, Io narrato e lettore che ritorna in ogni scrittura di viaggio successiva al suo compimento. “Il personaggio che ha scritto questi appunti è morto quando è tornato a posare i piedi sulla terra d’Argentina, e colui che li riordina e li pulisce “io”, non sono io; per lo meno non si tratta dello stesso io interiore”.

Sotto questo aspetto la decisione di partire e la riflessione – una volta tornato a casa – di Guevara sul viaggio nella «maiuscola America» appartengono a un’esperienza umana, emozionale e culturale che ha segnato per molte persone nella stria la crescita e la consapevolezza di che cosa sia il mondo «oltre» e «fuori» casa.

Ovvero fare i conti e capire significa andare incontro a una realtà che non si conosce con la voglia di sapere. Un’esperienza che in gran parte riguarda l’esperienza e le pratiche proprie dell’indagine antropologica come molti anni fa ha indicato Ernesto De Martino, ma anche capire, come suggerisce Nathan Wachtel, che nella storia della conquista, i conquistati guardano i conquistatori, hanno una loro cultura, un loro modo di classificare il mondo. Ovvero hanno una loro dignità di persone. Non solo, ma la loro memoria e la loro vita, ci obbligano a riscrivere la nostra percezione della storia e a prendere in carica domande inedite, o che non ci siamo mai fatte, per tentare di dare un carattere inclusivo a una idea di futuro.

Questa dunque è la sfida del viaggio come modo di dare risposta alla propria ansia di sapere.
Questo, riguarda il protagonista del viaggio.
Ma poi una volta che quell’esperienza diviene storia pubblica, che la storia di quel viaggio si fa testo di riferimento anche nelle generazioni successive a quella vita quel processo riguarda anche il lettore che quelle pagine incontra e che da quelle pagine esce non eguale a come ci è entrato.

La cronaca del viaggio, la narrazione delle sorprese e delle fantasie suscitate nell’incontro con altri mondi, osservava Lucien Febvre non costituiscono solo una fonte di notizie, ma sono anche un testo in cui apprendiamo molto sul cosmo culturale di chi scrive. Ovvero: non sono solo una storia dell’occhio – di ciò che il produttore di quel documento ha visto e ha registrato – ma costituiscono un blocco di indizi saliente intorno all’Io narrante, sulle sue aspettative, sul suo senso comune. Ciò non vale, continua Febvre, per ciò che c’è in quei testi, ma soprattutto per le suggestioni che in quei testi compaiono, per come l’“esperienza del viaggio” modifica le convinzioni proprie, e se quell’esperienza – maturata attraverso il veicolo narrativo – espositivo che utilizza – inaugura una nuova sensibilità. Ovvero, ancora utilizzando il lessico di Febvre, modificando il sistema degli affetti, il rapporto tra pubblico e privato.

 

 

Per concludere

Il problema non è il “viaggio” – dove si è andati, la storia delle peripezie, al più questo è solo una parte del problema – ma chi si è nell’atto del viaggiare e che cosa muta tra prima e dopo, quale la fisionomia dell’attore principale di quella esperienza/narrazione, ma anche quella dei suoi fruitori, ascoltatori, spettatori. E successivamente: come, tanto il primo come i secondi, riordinano il mondo, come lo leggono.

E il problema non è solo il personaggio che ha fatto fisicamente il viaggio e poi ne scrive, una volta tornato a casa. Quell’esperienza insieme al protagonista della storia, spesso ha formato molte persone che non hanno compiuto fisicamente quell’esperienza ma che imparano – attraverso le parole e l’esperienza di altri e il modo di fare con cui quelli fanno i conti con se stessi – a dare forma a una parte della propria persona.

La lettura anche in questo caso crea linguaggi condivisi. Leggere è anche lo strumento per apprendere e condividere emozioni e dunque fare propri pensieri, domande, visioni. Per tornare a farsi domande.

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