Ricercatrice Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Non solo storia – Calendario Civile \ #29dicembre1951


Il testo noto come i “diari della motocicletta” in realtà non è un diario. È un racconto che mette ordine nei ricordi di viaggio, e il testo, anche se spesso integra gli appunti effettivamente scritti in itinere, raccorda e ricostruisce la materia con il senno del poi.

Ciò che risulta, alla fine, è un’operazione di selezione e di montaggio che, se ci dice qualcosa sull’Ernesto che è partito, più ancora ci regala un vivido ritratto dell’Ernesto che è tornato. Lo dice con chiarezza l’autore in apertura: lo iato che si è prodotto tra l’“io” che ha vissuto e l’“io” che narra è tanto ampio da non essere giustificabile soltanto con la distanza tra esperienza e scrittura, tra il “qui e ora” e il ricordo richiamato a posteriori:

Il personaggio che ha scritto questi appunti è morto quando è tornato a posare i piedi sulla terra d’Argentina, e colui che li ordino e li pulisce, “io”, non sono io; perlomeno, non si tratta dello stesso io interiore. Quel vagabondare senza meta per la nostra “Maiuscola America” mi ha cambiato più di quanto credessi.

Naturalmente, il gusto per l’avventura è sempre ben vivo e un tocco di rocambolesco ammanta numerosi episodi del “diario”. Ernesto è capace di racconti vividi, saporiti, dotati di grande ironia e freschezza di impressioni. Leggendolo, si capisce chiaramente che egli non è interessato al reportage. Il suo non è un viaggio d’inchiesta o di ricerca, eppure è chiaramente quello il modello che ha in testa mentre stende alcune note sui lebbrosari cileni o sulle vestigia degli Incas.

Cominciamo dal nostro specifico di medici: il panorama generale della sanità cilena lascia molto a desiderare (dopo avrei scoperto che era di gran lunga superiore a quello degli altri paesi conosciuti in seguito). Gli ospedali gratuiti scarseggiano e c’è sempre un cartello che dice: «Perché si lamenta del servizio se lei non contribuisce al sostentamento di questo ospedale?» […] Gli ospedali sono poveri, generalmente carenti di medicinali e sale operatorie adeguate. Abbiamo visto sale mal illuminate e addirittura sporche, e non in piccoli villaggi, ma nella stessa Valparaíso. Le attrezzature sono insufficienti. I bagni molto sporchi. La coscienza sanitaria della nazione è scarsa.

Cuzco è completamente circondata da monti che costituiscono, più che una barriera, un pericolo per i suoi abitanti, gli stessi che, per difendersi, hanno costruito l’immensa mole di Sacsayhuamán. […] È possibile che la fortezza costituisse il nucleo originario della grande città. […] Questa doppia funzione di fortezza-città spiega il perché di alcune costruzioni il cui significato non si riesce a comprendere se il fine di tale città fosse stato semplicemente quello di contenere gli attacchi nemici. […] Poiché le fortificazioni sono espressione di un popolo di grande inventiva e solida intuizione matematica, ritengo cha appartengano all’epoca preincaica delle loro civiltà, il periodo in cui non avevano ancora appreso le comodità della vita materiale.

 

Ma poi è anche in grado di guardarsi come da fuori (forse, piuttosto, dalla prospettiva nuova di chi è tornato cambiato) e di smontare con autoironia l’aura da ricercatore scientifico che in altri punti sembra quasi confermare con orgoglio:

[…] a me interessava solo una notizia locale che trovai a lettere cubitali nella seconda parte [del giornale]: DUE ESPERTI DI LEPROLOGIA ARGENTINI ATTRAVERSANO IL SUDAMERICA IN MOTOCICLETTA. E poi, a caratteri più piccoli: Si trovano a Temuco e intendono visitare Rapa Nui. Lì c’era il condensato della nostra audacia. Noi, gli esperti, gli uomini chiave della leprologia americana, con tremila malati in trattamento e una vastissima esperienza, conoscitori dei centri più importanti del continente e ricercatori delle condizioni sanitarie dello stesso, ci degnavamo di fare visita al paesino pittoresco e malinconico che ci stava accogliendo.

 

Ad ogni modo, le parti di “inchiesta” non sono che brevi passaggi in un racconto che si muove in una dimensione completamente diversa. Due anni prima di salire in sella alla sua Poderosa, Ernesto era partito per un viaggio in solitaria nel Nord dell’Argentina, in bicicletta: nelle note scritte in quell’occasione emergeva spesso un anelito di libertà che spingeva Ernesto ad allontanarsi dal trambusto della quotidianità, a cercare la natura e il rapporto solitario con essa. Qui, invece, il movimento è esattamente opposto. Là c’era un istinto di fuga, qui c’è una volontà di immersione totale e sinestetica.

Il suo è un viaggio di conoscenza non nel senso dell’affermazione di un’intenzione documentaria: è conoscenza perché è esperienza a tutto tondo. Ernesto non si accontenta di vedere: vuole toccare, annusare, vivere sulla propria pelle la vita delle persone che incontra. È una comprensione profonda della realtà che lo circonda, che anche qui passa per un movimento di identità, ma di identità collettiva, non più individuale.

Il viaggio di Ernesto è un viaggio dentro il popolo americano: il giovane “medico” non lo studia dall’alto e da fuori, non lo osserva con la lente del preconcetto, ma lo guarda occhi negli occhi, ad altezza uomo, senza paura, ma anzi con il desiderio di esserne “contaminato” per quanto più possibile.

Valparaíso è molto pittoresca, sorge dalla spiaggia che si affaccia sulla baia, e crescendo si è abbarbicata ai monti che muoiono nel mare. […] Con pazienza di chirurghi curiosiamo tra le scalinate sudice e negli anfratti, parliamo con i mendicanti che abbondano; auscultiamo il fondo della città, i miasmi che ci attraggono. Le nostre narici captano la miseria con sadico fervore.

 

Quello che sa già non gli serve per mantenere le distanze, ma semmai per acuire i sensi e per costruire una consapevolezza più solida del fatto incontrovertibile che irradia da tutto ciò che incontra sul suo cammino: il fatto, cioè, della povertà, delle diseguaglianze, degli immani problemi sociali che affliggono l’ America latina.

Alla fine, è l’incontro con questa realtà che mette in moto il cambiamento. Al di là e al di sopra di ogni dato statistico sulle strutture sanitarie, di ogni dotto ragionamento sulle culture precolombiane spazzate via dalla colonizzazione europea, quel che c’è da vedere è la miseria del popolo sudamericano, tanto sfacciata e lampante quanto profonde e complesse sono le sue radici.

Ed Ernesto sicuramente vede al punto da maturare la certezza che indagare quelle radici sia rimandabile, mentre ciò che non più rimandabile è avviare il cambiamento, ad ogni costo e con ogni mezzo. La chiusa dei “diari” in questo senso è da brividi:

[…] adesso sapevo… sapevo che nel momento in cui il grande spirito che governa ogni cosa darà un taglio netto dividendo l’umanità intera in due sole parti antagoniste, io starò con il popolo, e lo so, perché lo vedo impresso nella notte, che io, eclettico sezionatore di dottrine e psicoanalista di dogmi, urlando come un ossesso, assalterò barricate o trincee, tingerò di sangue la mia arma e, come impazzito, sgozzerò ogni nemico che mi si parerà davanti […] Già si contrae il mio corpo, pronto al combattimento, e preparo il mio essere come un tempio sacro in cui risuoni di nuove vibrazioni e nuove speranze il grido belluino del proletariato trionfante.


Bibliografia

Ernesto Che Guevara, America Latina. Il risveglio di un continente, Milano, Feltrinelli, 2006.

Ernesto Che Guevara, Latinoamericana. I diari della motocicletta, Milano, Mondadori, 2013.

Ernesto Guevara Lynch, Mio figlio il Che, Milano, Sperling& Kupfer, 1997.

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