Da tempo il nostro Paese vive una stagione di stagnazione economica, bassi salari e disuguaglianze crescenti. Questi problemi non sono separati, ma si intersecano:
la crescita necessaria dopo la pandemia dovrà essere inclusiva e sostenibile, per non ricadere in una situazione peggiore di quella che l’ha preceduta.
Non c’è dubbio che ciò debba passare da una rivoluzione di come pensiamo l’attore pubblico e di come esso può operare concretamente. Ridotto a mero “mercante nel mercato”, lo Stato ha via via ridotto le sue capacità dinamiche, pur rimanendo saldamente al centro della nostra economia, vista la natura del capitalismo italiano.
Esponiamo allora rapidamente alcuni cenni teorici alla base di questa visione ristretta di Stato.
Uno dei più fieri oppositori dell’intervento pubblico nell’economia fu l’economista e scienziato politico austriaco Friedrich von Hayek. In uno dei suoi lavori più importanti, The Use of Knowledge in Society, sosteneva che, data la natura decentralizzata dell’informazione in un mercato, l’azione dei singoli è superiore all’azione di un pianificatore centrale.
L’azione pianificatrice dello Stato rischierebbe di essere dannosa anche perché il sistema economico è caratterizzato non solo dal rischio (quantificabile), ma anche dall’incertezza (non quantificabile), come osservò quasi cento anni fa l’economista di Chicago Frank Knight. Infine, come sosteneva Joseph Schumpeter, non vi è alcuna tendenza all’equilibrio: ogni sviluppo economico è mosso dalla spinta della distruzione creatrice.
Spesso citate come argomentazioni a favore del libero mercato (con qualche aggiustamento al margine da parte dello Stato), queste considerazioni si prestano anche a un’interpretazione diversa. La natura dinamica, incerta e complessa dell’economia può essere vista come giustificazione di un nuovo tipo di intervento statale. Un intervento che miri ad affrontare l’incertezza fondamentale delle interazioni economiche e a stabilizzare un’economia instabile e complessa. I punti di riferimento a tal proposito sono John Maynard Keynes (con la sua proposta di “socializzazione degli investimenti”) e Hyman Minsky (con la sua “ipotesi di instabilità finanziaria”).
Come sostengono anche Dani Rodrik e Charles Sabel, questa consapevolezza deve spingerci a ripensare gli strumenti con cui interveniamo nel sistema economico. Tra i modelli vincenti vi sono sicuramenti il Darpa e l’ARPA-e, due agenzie federali degli Stati Uniti. Esempi dei progetti mission-oriented di cui parla Mariana Mazzucato, esse hanno favorito l’innovazione tecnologica in un ecosistema innovativo pubblico-privato.
Non è un caso se, nel suo paper del 1987 Does Technology Policies Matter?, Henry Ergas inserisce gli Stati Uniti come esempio virtuoso per i progetti orientati alla missione. È proprio un approccio pragmatico quello di cui abbiamo bisogno ora. Lo stesso approccio anima alcune recenti iniziative, come il documento firmato da Patrizia Nanz e altri intellettuali tedeschi per chiedere un rinnovamento delle istituzioni pubbliche e un maggior coinvolgimento della società civile.
Non è più una questione di quanto Stato e quanto mercato vogliamo. E forse la questione non è mai stata questa. Il vero punto è quale Stato e quale mercato vogliamo come società.
Sono autori dell’articolo Alessandro Bonetti e Mattia Marasti di Kritica Economica.