Nel 1961 usciva, edito dall’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, La Resistenza in Italia: 25 luglio 1943-25 aprile 1945: saggio bibliografico. Si trattava – nelle intenzioni della curatrice Laura Conti, partigiana – di uno strumento utile a chi intendesse studiare la Resistenza italiana nei termini del «processo di formazione di un patrimonio di pensiero». Ci si proponeva, dunque, di iniziare ad esaminare le idee della Resistenza attraverso quella che ne era stata la testimonianza più immediata: la stampa clandestina. Sulla rilevanza della fonte Gianni Perona avrebbe osservato in proposito più tardi, nel Dizionario della Resistenza pubblicato da Einaudi: «Poche congiunture storiche hanno visto la stampa svolgere un ruolo tanto importante quanto la Resistenza: essa è portatrice di messaggi operativi, politici, propagandistici, morali, tutti d’importanza cruciale per i produttori come per i destinatari, comunicatrice di una cronaca vera da opporre alla falsità della stampa fascista, affermazione d’identità e simbolo di libertà per il fatto stesso di esistere. Per pubblicarla, trasportarla, riprodurla si mobilitano energie immense, si corrono gravi rischi e, letteralmente, si può morire».
In anni più recenti, nel tentativo di far fronte a un inesorabile processo di dispersione e deterioramento delle fonti – che Conti stessa aveva denunciato nella prefazione al suo volume – diversi istituti storici della Resistenza hanno avviato studi sulla stampa resistenziale, ristampe anastatiche di alcune testate, antologie, cataloghi e qualche esperienza di digitalizzazione, ma è solo con il progetto “Banca dati della stampa clandestina italiana 1943-1945”, ideato dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri nel 2013, che si è finalmente creato un catalogo generale della stampa clandestina edita in Italia tra il 1943 e il 1945, rendendo disponibili tutti i numeri editi in formato digitale.
Nella passeggiata dedicata alla Resistenza e alla stampa clandestina a Milano, che si inserisce all’interno del Festival Che storia! 2021 promosso da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli il 4 e il 5 dicembre, si intende utilizzare e valorizzare questa tipologia di fonte storica in un’ottica di Public History.
In un percorso che si snoda in otto tappe per la città di Milano, con partenza in Corso XXII Marzo e arrivo in Fondazione, verranno riscoperte e restituite ai pubblici le memorie di donne e uomini che, dopo il luglio del ‘43, si impegnarono, mettendo a rischio la propria vita, a produrre o a distribuire materiale antifascista. Tra le più significative, vi sono quelle di Piera Pattani e Franco Rovida. La prima, operaia, ha solo 16 anni quando, nel ‘43, entra nelle file della Resistenza come staffetta partigiana per la Brigata 182 Garibaldi-Mauro Venegoni e inizia a distribuire nelle fabbriche di Legnano e dell’alto milanese volantini che invitano a scioperare contro il regime fascista. Al civico 22 di Corso XXII Marzo, dove sorge una tipografia clandestina, Piera si reca abitualmente per ritirare il materiale a stampa: di quell’esperienza racconterà molti anni dopo in un’intervista conservata oggi nell’Archivio del Lavoro della CGIL di Milano. Il secondo, tipografo, compie l’altrettanto coraggiosa scelta di stampare in viale Campania 17 i numeri de “Il Ribelle”, la testata delle Fiamme Verdi bresciane i cui redattori Astolfo Lunardi ed Ermanno Margheriti nel febbraio del ‘44 sono stati uccisi dai nazi-fascisti. Uno dei motti fatti propri dal giornale è:
“Nell’inferno della vita entra solo la parte più nobile dell’umanità. Gli altri stanno sulla soglia e si scaldano”.
Franco, come altri, paga a caro prezzo la propria condotta: arrestato il 9 maggio del ‘44, dopo essere stato trasferito in diversi campi di concentramento, viene deportato nel lager di Mauthausen, nel cui sottocampo di Melk muore il 21 febbraio del ‘45.
È bene ricordare che la memoria non è la storia e le memorie, inevitabilmente, sono sempre divise: quelle clandestine, di chi si adoperò per formare o diffondere le idee della Resistenza, si innestano in un contesto che fu tra i più drammatici e laceranti della storia d’Italia – la guerra civile – e rispetto al quale il nostro Paese fatica ancora a confrontarsi fino in fondo.
Nel tentativo di restituire i nodi e, quindi, la complessità della storia, all’interno del percorso si vuole riflettere su luoghi dove ancora oggi il conflitto di memorie è molto acceso. A Piazzale Loreto, il 10 agosto del ‘44, su ordine degli occupanti tedeschi, quindici prigionieri antifascisti vengono fucilati. Tra di essi c’è anche Salvatore Principato: antifascista di lungo corso, di professione maestro elementare, durante la Resistenza – come racconta Massimo Castoldi nel volume del 2018 edito da Donzelli Insegnare libertà: storie di maestri antifascisti – è attivo nella diffusione della stampa clandestina socialista, con lo schermo di una piccola officina meccanica, la ditta F.I.A.M.M.A. Eppure, la memoria di Salvatore, a cui è intitolata anche una targa in viale Gran Sasso 5, è stata a lungo soverchiata assieme a quella degli altri quattordici compagni uccisi da quella dell’esposizione, il 29 aprile del ‘45, dei corpi di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi: un esempio eloquente degli oblii e delle rimozioni della memoria pubblica, che recentemente è stato oggetto di nuove e preziose indagini, condotte alla luce di fonti archivistiche anche inedite (Elisabetta Colombo, Anna Modena e Giovanni Scirocco, Il nostro silenzio avrà una voce. Piazzale Loreto: fatti e memoria, Il Mulino, Bologna, 2021).
Lo spazio urbano si configura come terreno di rielaborazione e racconto del passato: esso – è il caso soprattutto dei luoghi della Resistenza e del fascismo – riflette tensioni che è fondamentale che lo storico riesca a trasferire sul piano pubblico, al riparo da facili e pericolose letture strumentali e banalizzazioni.
Solo attraverso una conoscenza critica del passato, infatti, è possibile la costruzione di una cittadinanza democratica.