Ricercatrice

Allo scoccare del 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne, un’annuale conta viene presentata: quella del femminicidi, che nel 2021 si assesta a 103, rappresentando circa il 40% di tutti gli omicidi commessi nel Paese (Repubblica). L’attacco alla vita e all’incolumità femminile è però un pezzo di un più ampio puzzle in cui trovano posto il divario economico di genere nel mercato del lavoro, le discriminazioni nel mondo dello sport, la violenza online, la delegittimazione delle vittime nei media, la banalizzazione della violenza nei discorsi politici, l’opposizione all’educazione al rispetto di genere nelle scuole e il deliberato taglio ai fondi a percorsi di riabilitazione di uomini maltrattanti o a quelli dedicati alle donne vittime di violenza.

Non congiungere i pezzi del puzzle significa mancare la visione di insieme, ignorare le connessioni di una cultura discriminante e derubricare episodi di violenza come emergenziali, ma che sono invece strutturali e capillari (Openpolis).

La pandemia, e il relativo confinamento tra le mura domestiche, ha intensificato gli abusi nella sfera famigliare finendo per aumentare ulteriormente l’isolamento delle donne e le difficoltà ad attivare reti di supporto. Non solo, ma ha segnato l’incremento della violenza online, una dimensione che garantisce un maggior anonimato: dal web stakling, agli insulti d’odio, fino al revange porn. I gruppi telegram, che inneggiando alla violenza sulle donne o che incentivano la diffusione di materiale che viola la privacy, abbondano e contano migliaia di iscritti. Un sondaggio dell’associazione PermessoNegato ha rilevato 190 gruppi telegram per la diffusione di filmati porno non consensuale in Italia, mentre in tutta Europa sono più di 8 milioni gli utenti di questa tipologia di porno (Agi); il gruppo italiano telegram “Stupro tua sorella 2.0” alla sua chiusura contava 43.000 iscritti (Fanpage). La violenza informatica ha un impatto diretto sulle vittime, prima di tutto in termini di salute mentale, con una maggiore incidenza di depressione e disturbi d’ansia. Un impatto che è anche sociale ed economico: dal ritiro dal dibattito pubblico, ai costi sostenuti per la ricerca legale e assistenza sanitaria, fino all’impatto sul mercato del lavoro in termini di minore presenza sul lavoro, al rischio di minore produttività (LaStampa).

Il mondo dei media, che contribuisce significativamente alla cultura informativa sulla violenza sulle donne, non è esente dal perpetuare narrazioni che tendono al depauperamento dei diritti civili delle donne e alla delegittimazione dei racconti di coloro che hanno subito violenza. Non è nuova la richiesta del mondo scientifico e associativo di cancellare termini come “raptus” e “amore” dalla cronaca di femminicidi e la stessa tivù pubblica è stata fortemente criticata, ad inizio 2021, per aver mandato in onda trasmissioni che raccontavano finti stupri, incentivando la tendenza a mettere in dubbio la credibilità di chi denuncia (IlPost). Recentemente ha fatto discutere la posizione contro l’aborto all’interno di un programma della tivù privata andato in onda in prima serata e sostenuto nei giorni successivi da movimenti conservatori “Pro vita” (Fanpage). O ancora, la presentatrice di Forum che trattando il tema della violenza sulle donne ha mistificato i reati maschili come risultanti di comportamenti esasperanti femminili (D.i.r.e).

Se la violenza di genere non conosce confini culturali e non è relegabile a precisi contesti socio-economici, lo dimostrano ulteriormente anche i recenti episodi di cronaca in cui gli autori della violenza non solo appartengono a contesti professionali, ma approfittano della posizione di potere per perpetuare le violenze. Si pensi al medico ginecologo che prescrive rapporti sessuali alle pazienti per la cura del papilloma virus (Fanpage); all’agente immobiliare che, a Milano, somministra durante una visita per la compravendita di un immobile delle sostanze narcolettiche a una coppia di clienti, per poi abusare sessualmente delle donna in stato di incoscienza (IlFattoQuotidiano); ai numerosi casi di violenze fisiche e psicologiche, aggressioni e ricatti sessuali nel mondo accademico ai danni di giovani studentesse dal Nord al Sud Italia (LaRepubblica).

Nemmeno il mondo dello sport, spesso rappresentato come un luogo dove maturare e veicolare valori e diritti civili, per le donne si rivela essere sempre inclusivo e paritario. La multa alle giocatrici norvegesi che si sono rifiutate di indossare il bikini in occasione dei campionati europei di volley a luglio 2021 ha destato non poche polemiche a livello internazionale: non solo le atlete sono state discriminate in confronto ai colleghi uomini a cui erano concessi abiti più coprenti, ma è emerso evidente il ruolo di intrattenimento che i corpi delle giocatrici rivestivano nelle competizioni, a discapito delle professionalità delle loro perfomances (LaStampa). L’autonomia decisionale e l’autodeterminazione delle sportive rispetto ai propri corpi e alla propria salute se non sono percepite come un oltraggio a regole difficilmente mutabili vengono talvolta erette a emblema della fragilità femminile.

Si pensi al caso della ginnasta statunitense Simone Biles ritiratasi da alcune gare alle Olimpiadi 2021 per tutelare la propria stabilità psicologica e che ha innescato una serie di speculazioni sulla sua capacità di rappresentare il Paese e sulla sua professionalità (Ultimavoce).

Il valore della competitività a scapito del percorso personale e del benessere individuale e collettivo sono stati recentemente messi indubbio e sotto accusa anche da alcune studentesse della Scuola Superiore Normale di Pisa che hanno denunciato un sistema accademico che segue la logica del profitto, con precarietà crescente, e senza parità di genere (IlFattoquotidiano).

La trans-settorialità e la diffusione della violenza sulle donne rende evidente l’assenza di un piano di intervento politico di larga scala e la necessità di misure preventive puntali, strutturali e diffuse. Parte della politica dà prova non solo di non agire in questa direzione, ma al contrario in alcune significative occasioni contribuisce alla diffusione di una cultura violenta, patriarcale, discriminatoria contro le donne. «Ma di figa non si parla più?» è la frase, recentemente pubblicata, come immagine di copertina di Facebook da Matteo Baggio, consigliere e capogruppo della maggioranza al Comune di Quarto d’Altino (Veneziatoday); «Posso dire che due palle con ‘ste propagande per la violenza verso la donna? Sembra sia tutto a senso unico. Se gli uomini sono tremendi, scop*tevi i cavalli», scrive invece pochi giorni fa il responsabile del dipartimento arte, musica e spettacolo del circolo Città di Trento di Fratelli d’Italia (IlDolomiti). «Molto spesso, ci sono delle donne che a volte fanno delle denunce assolutamente infondate per delle cose che in realtà o non sono vere o non sono così gravi…», pronuncia invece la Presidente della Commissione per le Pari Opportunità̀ del Comune di Padova durante un webinar proprio sulla violenza sulle donne (PadovaOggi). Nel mondo politico sembra mancare non solo un’unità di presa di posizione netta, ma manca anche la volontà di incrementare gli strumenti preventivi e di assistenza alle vittime di violenza. Il recente “reddito di libertà” pensato e promosso dal 2020 come misura economica per supportare le donne vittime di violenza, pur ideato con ottimi presupporti, nella pratica risulta altamente insufficiente, avviato con un ritardo di 15 mesi e con un iter burocratico complesso da perseguire (Informazionefiscale). I tagli e i ritardi dei finanziamenti ai Centri anti violenza sono un leit motive degli ultimi anni e aumentano, paradossalmente, all’aumentare dei casi e delle forme di violenza: nel 2021 solo il 2% dei fondi del 2020 è arrivato a destinazione (IlCorrieredellasera).

I soldi e i fondi economici privati sono anche al centro di molti moventi di femminicidi. La cronaca restituisce sempre più spesso di figli, nipoti, mariti ed ex coniugi che uccidono donne per appropriarsi dei loro beni materiali e immobiliari o per evitare di spartire i propri. Per citarne alcuni, è il caso di Rosina Carsetti, uccisa a Natale 2020 dalla figlia e dal nipote per impadronirsi della casa (IlRestodelcarlino) o Ilenia Fabbri assassinata su commissione dall’ex marito per evitare di versare un risarcimento pecuniario (FanPage). Una lettura che scardina la visione delle donne vittime di violenza come fragili figure in balia di chi è più forte, ma al contrario soggetti attivi, con una stabilità e indipendenza economica.

La violenza sistematica contro le donne per finalità economiche è anche alla base del nesso socio-storico tra capitalismo e caccia alle streghe, un fenomeno di persecuzione che ha preso piede tra il 1300 e il 1700, causando circa 50.000 vittime.

L’accusa di stregoneria secondo Silvia Federici, filosofa politica e autrice di Guerra alle donne e Calibano e la strega, è stata perpetuata nei confronti di donne libere per imporre un nuovo codice etico e sociale che rendeva sospetta ogni fonte di potere indipendente dallo Stato e dalla Chiesa. Meccanismo che ha aperto la strada all’economia globalizzata, al libero mercato, e in ultima analisi al capitalismo, in cui il restringimento delle libertà femminili è necessario e propedeutico per smantellare la capacità, tutta al femminile, di cooperare, tenere insieme e riprodurre comunità, difendere i diritti civili collettivi, ma soprattutto per riprodurre forza lavoro (IlFatto quotidiano).

Negli ultimi anni sono aumentati i movimenti e i gruppi femminili e femministi, soprattutto in chiave inclusiva e intersezionale, che portano a galla denunce, necessità, urgenze e soluzioni politiche. Il mondo accademico si sta ibridando con gruppi di ricerca che incorporano associazioni e gruppi più informali. Numerosi sono gli eventi, anche di natura artistica, che tengono alta l’attenzione sul fenomeno della violenza sulle donne. Tuttavia non basta. È necessario incrementare gli spazi di ascolto politico delle voci di esperte, attiviste e accademiche, potenziare gli strumenti di prevenzione, attivare percorsi di educazione nelle scuole, affiancare a dibattiti pubblici necessari e preziosi misure economiche cospicue e tangibili, tutelare in modo più stringente con strumenti normativi tempestivi le donne che denunciano abusi. In altre parole bilanciare la cultura della violenza con una cultura inclusiva, paritaria, equa e che guarda alla tutela del benessere collettivo.

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