Pubblichiamo qui un estratto tradotto in italiano dell’intervista di Dominique Méda «Notre croyance dans la capacité du progrès technologique à nous sauver constitue un obstacle radical à la reconstruction d’une économie plus sobre», in Grand Entretien, IRIS édition, Paris 2021.
Il nostro intero modello di sviluppo deve essere riformato.
Bisogna cambiare la “cosmologia”, cioè rompere con parte di quel che la Modernità ci ha lasciato in eredità, quell’attitudine che impone all’uomo di estorcere alla Natura i suoi segreti, di renderla nostra schiava e di ricusare i limiti del dominio dell’umano sull’Universo, come suggerito di Francesco Bacone all’inizio del XVII secolo.
È tempo di ripensare il posto dell’uomo nella Natura e rivedere il nostro modo di abitare la Terra. Un cambio di passo che presuppone una revisione radicale delle nostre concezioni economiche e, più concretamente, un massiccio investimento per ricostruire la nostra economia. I piani di rilancio varati a fronte della crisi pandemica sarebbero potuti andare in questa direzione, ma l’opportunità non è stata colta.
Prendiamo l’esempio del piano di rilancio americano: anche se molto più massiccio, resta completamente nel quadro delle concezioni classiche ereditate dalla Modernità. L’uomo deve usare la Natura per soddisfare tutti i suoi desideri e questa forma di sfruttamento costituisce sia il segno della nostra umanità sia l’indizio di un processo di crescita: trattiamo la Natura alla stregua di una merce e consideriamo questo processo come un progresso di civiltà, senza mai includere i danni provocati. Ciò che è deplorevole è che, nonostante tutte le allerte, non abbiamo considerato la gravissima crisi sanitaria che stiamo attraversando come un avvertimento che ci ricorda la fragilità dei nostri sistemi e l’urgenza di cambiare rotta. Le colossali somme investite dagli Stati Uniti avrebbero potuto essere destinate alla ricostruzione dell’economia promuovendo uno sviluppo socio-ecologico: trasformazione dell’agricoltura, dei processi industriali, delle infrastrutture, della mobilità, ecc.
Invece viviamo ancora il mito del progresso tecnologico liberatorio e necessariamente buono: qualsiasi innovazione tecnologica è da accogliere con favore, poiché può arricchire il “capitale umano” e favorire il processo di crescita.
Restiamo sulla strada aperta da Francis Bacon: dobbiamo rileggere la Nuova Atlantide, che ci spiega come il valore tecnologico permetterà la costruzione di un nuovo Eden per l’umanità.
Ma quello che abbiamo sotto i nostri occhi è l’esatto contrario: la diffusione sfrenata delle applicazioni digitali sta distruggendo tutte le regole che avevamo faticosamente forgiato per proteggere il lavoro umano e renderlo meno esposto ai rischi.
Ora sono grandi aziende come Uber o Deliveroo a dettare legge: queste aziende eludono tutte le normative, rifiutandosi di assumere il ruolo di datore di lavoro e dunque di garantire la salute e la sicurezza dei propri lavoratori e di contribuire al finanziamento della protezione sociale. Ma ci mettono anche in uno stato di totale dipendenza, che si tratti dell’acquisizione dei nostri dati o del fatto che rendono tutto il nostro precedente know-how inutile e obsoleto.
La fiducia che riponiamo nella capacità del progresso tecnologico di salvarci – teorizzata da molti economisti – è un ostacolo radicale alla ricostruzione di un’economia più sobria. È urgente riprendere il controllo, sia teoricamente – penso al lavoro di Steve Keen e alla sua critica all’ottimismo tecnologico di William D. Nordhaus – sia concretamente stabilendo regole di protezione: dei nostri dati, lavoratori e così via.
L’Europa ha dato i natali al mito tecnocratico che ci ha portato sull’orlo del precipizio in cui ora ci troviamo, ma l’Europa è stata anche la culla dell’Illuminismo.
Abbiamo bisogno di nuove luci.
L’Unione Europea potrebbe essere il luogo dove si costruisce sia il nuovo paradigma – una ridefinizione del progresso che alla logica del profitto produttivista sostituisca quella dei benefici condivisi in termini di qualità e sostenibilità, come suggerisce Jean Gadrey – sia la biforcazione concreta che è necessaria. Potrebbe diventare lo spazio in cui fioriscono questi nuovi illuministi, una forma di sintesi tra la promozione della scienza e della ragione dell’Illuminismo e quella del limite, della giusta misura, della moderazione e l’inclusione degli umani nella natura propria dell’antica Grecia. Un cambio di paradigma che richiederebbe agli Stati membri dell’UE di riconoscere questo patrimonio comune e di impegnarsi a farne il terreno fertile per una visione e una politica condivise. Su questa base, potrebbero sorgere e progredire nuove pratiche di solidarietà che consentano lo sviluppo di un modello socio-ecologico comune.
Il lavoro è ovviamente un elemento centrale di questo nuovo modello: i principi presenti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – che sancisce il diritto al lavoro, alla libera scelta del lavoro, a condizioni di lavoro eque e soddisfacenti e alla tutela contro la disoccupazione – dovrebbero avere forza di legge nell’Unione europea.
Serve un’autentica democratizzazione del lavoro che consenta ai lavoratori di partecipare alle decisioni strategiche delle imprese, allo stesso titolo dei fornitori di capitali. E serve demercificare il lavoro: il lavoro non è una merce.