Nel meraviglioso libro illustrato di Roberto Innocenti, Cappuccetto rosso. Una fiaba moderna si racconta una nuova versione di cappuccetto rosso ambientata in una grossa città metropolitana contemporanea, fatta di inquinamento e comportamenti efferati. Al centro di questa città campeggia un enorme centro commerciale. Fumi tossici, rapidità, atteggiamenti antisociali sono la cifra del nuovo ambiente di vita di cappuccetto rosso. Come il Marcovaldo di Calvino dinanzi alla città fordista degli anni 60, il libro illustrato di Innocenti offre una spietata rappresentazione della città neoliberale che mercifica lo spazio di vita e banalizza l’esperienza di convivenza.
Per cogliere a fondo la natura e il funzionamento della città neoliberale, può essere utile partire dalle analisi prodotte nell’ambito della geografia radicale. Riprendendo le tesi di alcuni geografi marxisti (Harvey e Brenner in particolare), il sociologo francese Gilles Pinson, nel suo testo La ville néolibérale, rileva alcuni caratteri comuni alle principali città europee contemporanee: la capacità di attirare creative class e sviluppare un’economia ad alto valore aggiunto, la voglia di ricostruire la città sulla città, la volontà politica di affermarsi come laboratorio di soluzioni smart e sostenibili. Al netto dell’effettivo impatto sociale e territoriale di queste iniziative, esse hanno in comune due caratteri: (1) partecipano a una riduzione della città pubblica in favore della città privata e (2) sembrano nascondere il legame che le lega al sistema economico tardo-capitalistico, lasciando in secondo piano la questione della compatibilità tra queste tendenze e il diritto alla città di chi la vive.
Semplificando è possibile dire che la “privatizzazione” della città sia un processo innescato da un doppio movimento: il retrenchment dello Stato e l’affermazione di una spietata concorrenza interurbana. La crisi dello Stato e la rimodulazione degli interventi di sostegno ai territori hanno infatti reso le città più direttamente dipendenti da flussi economici privati, attivando un meccanismo concorrenziale tra territori. A detta di Patrick Le Galès, la crescita concorrenziale viene così “naturalizzata dall’azione pubblica come vincolo inevitabile”, con chiare ricadute sulla trasformazione dei territori e il loro disegno. La necessità di attrarre investimenti privati ha una diretta conseguenza nello sviluppo fisico della città, poiché l’ambiente costruito è uno degli oggetti privilegiati dell’investimento finanziario, e lo spazio urbano e i suoi edifici non sono solo l’oggetto di accumulazione di capitale, ma veri e propri asset soggetti a logiche speculative. Nelle principali metropoli europee, l’aumento del valore del mattone e la distanza sempre più marcata dall’effettivo potere d’acquisto dei residenti ha determinato l’acuirsi delle disuguaglianze sociali e delle fratture tra coloro che beneficiano da tali dinamiche (perché proprietarie) e le popolazioni che ne subiscono le conseguenze, in primo luogo l’espulsione verso l’esterno della città.
In equilibrio tra attrattività e tentativo di governo di queste dinamiche, l’azione pubblica urbana tende a presentarsi, lo si diceva sopra, come movimento unitario e a-politico, fondato su leadership forti e scelte pragmatiche per aumentare la competitività locale. Un’amministrazione locale che naturalizza il vincolo dell’attrazione di investimenti come inevitabile tende a costruire l’insieme della sua azione politica a partire da questo vincolo, muovendosi all’interno di un campo che è delimitato da questa frontiera. Per questa ragione gli interventi di regolamentazione della rendita urbana e contrasto alla speculazione immobiliare non sono sistematicamente integrati nell’agenda delle grandi città europee, e là dove esistono (come nel recente caso del referendum sugli espropri a Berlino), fanno scalpore.
La difficoltà a governare le forze che producono la città struttura un campo politico in cui lo spazio di partecipazione riservato ad alcuni soggetti finisce per ridursi : anziani, migranti di prima e seconda generazione e bambinə compongono l’eterogenea platea di coloro che il sociologo Saul Alinsky definirebbe “i senza potere” e anche i “senza voce”, gli inascoltati.
In un momento storico dove la vita urbana è oggetto di ampi dibattiti – ultimo dei quali il testo L’Ultima Milano di J. Lareno e A. Ranzini – scegliamo di adottare la prospettiva dei bambini e delle bambine nella convinzione che essa rappresenti un punto di osservazione privilegiato per comprendere alcuni caratteri della città contemporanea.
I bambini e le bambine sono infatti i senza potere per eccellenza perché esclusə da tutte le dinamiche decisionali della città, sebbene siano oggetto di interventi e di politiche che lə riguardano. Così, esaminare la città con le lenti dell’infanzia significa porsi nella prospettiva dei senza potere per cogliere gli effetti che si producono sulle fasce di popolazione più deboli e vulnerabili. Questa è, ovviamente, una scelta di posizionamento analitico che ha forti implicazioni politiche. Leggere lo spazio urbano dalla prospettiva della città (non) educante permette di mettere a fuoco alcune distorsioni prodotte dalla città neoliberale e di identificare politiche e interventi che agiscono su di esse, in particolare attorno a due nodi principali. Il primo, spaziale, riguarda il modo in cui la progettazione dello spazio pubblico tiene conto della presenza delle bambinə al di fuori dei luoghi che gli sono specificamente dedicati. Il secondo, pedagogico, riguarda l’integrazione tra agenzie educative e territorio e la possibilità della città come trama urbana di apprendimento.
La convinzione che muove chi scrive è che la prospettiva dell’infanzia sulla città sia una prospettiva a vantaggio di chi le città le abita. In un certo modo, potremmo dire che bambini e bambine sono degli “indicatori speciali”: quando una città è adatta allə bambinə è adatta a tutti, soprattutto ai più vulnerabili.
Una città vietata ai minori non accompagnati
Quando si parla di città e bambinə, un primo ordine di problemi è legato al tema del diritto alla città per bambinə e ragazzə, in particolare dell’accessibilità dello spazio pubblico per i più piccoli senza la supervisione degli adulti. Nel 1978, Colin Ward pubblica The Child and the City, un testo che denuncia la perdita della funzione pedagogica della città, lo streetwork che fa dell’uso dell’ambiente urbano una risorsa educativa. Nell’Inghilterra a cui guarda Ward lə bambinə sono relegatə in spazi pubblici chiusi, progettati per essere luoghi del gioco. Per descrivere questi luoghi Ward usa l’immagine del recinto di sabbia, il sandbox che assicura un’attività controllata e allevia i genitori dalla preoccupazione legata al gioco in strada. Fuori dai sandbox, la città è “vietata ai minori non accompagnati” perché pericolosa, innanzitutto a causa dell’onnipresenza delle macchine. Il risultato è una riduzione dello spazio di autonomia dellə piccolə, che aumenta una soffocante dipendenza dai genitori. La paura del pericolo priva lə bambinə della possibilità di divenire padrone del suo ambiente, socializzarsi alla città e ai suoi rischi, confrontarsi e relazionarsi con altri adulti esterni al nucleo familiare. Alle bambinə é impedita l’esperienza della libertà e della responsabilità, ovvero l’educazione incidentale che rende lə bambinə dellə cittadinə. La strada, che era precedentemente individuata come luogo della sosta e della socializzazione, è oggi identificata come luogo del rischio e del pericolo.
Appare evidente che affinché la strada possa essere luogo di apprendimento è necessario ridurre i rischi a cui si espone chi la usa : i numerosi pericoli della città (su tutti l’automobile) e la loro incompatibilità con i bisogni fondamentali dell’infanzia sono oggetto di riflessione sin dagli anni 50 (Cobb, Jacobs, Goodman).
Ancora oggi fatichiamo ad accettare l’idea di una città come spazio educativo “immediato” al di fuori dei recinti. Tuttavia, osserviamo politiche e interventi che fanno della riduzione del rischio un fattore chiave per rendere lo spazio pubblico della città accessibile ai più piccoli.
È il caso ad esempio delle trasformazioni ambientali di stampo tattico e placemaking, che intendono sottrarre spazio alle auto restituendo allə bambinə un ambiente urbano meno ostile. Il caso più emblematico è quello della città di Barcellona, che ha definito una strategia per passare da una city with play areas ad una playable city attraverso 63 azioni da mettere in campo entro il 2030, tra cui vi sono sia interventi spaziali per garantire la sicurezza nell’uso dello spazio sia iniziative sociali e di concertazione con i più piccoli.
Uscendo dallo spazio funzionalizzato che gli viene dedicato, lə bambinə passa dall’essere il beneficiario di una politica di gestione dello spazio all’essere un cittadino che condivide la città con il suo fruitore per eccellenza – l’adulto -, diventando un soggetto attivo che esprime dei bisogni e ha un diritto alla cittadinanza. In questo senso si muovono gli interventi di inclusione dei bambinə in progetti di cittadinanza attiva, come “La città delle bambine e dei bambini” promosso da ANCI Lombardia sotto la supervisione di Francesco Tonucci, che fa della partecipazione dei bambini e delle bambine una necessità per governare correttamente la città e restituirgli autonomia di movimento, attraverso l’istituzione di un Consiglio dei Bambini e di interventi di progettazione partecipata.
Il modello scuola-centrico
Un secondo ordine di problemi nel nesso bambinə-città ha a che fare con la conformazione specifica delle scuole come manufatto architettonico. L’edificio scolastico, si sa, è il luogo primario dell’esperienza dellə bambinə in città, dove sono trascorse le ore più significative del tempo extra-famigliare. La metafora dello spazio come “terzo insegnante”, usata da Loris Malaguzzi, connota bene l’importante ruolo che l’ambiente può ricoprire nel sistema-scuola. Eppure molta è la distanza tra la teoria pedagogica dello spazio e la realtà delle scuole in cui lə bambinə si trovano quotidianamente. Infatti, il modello di scolarizzazione di massa ci ha consegnato aule statiche con setting frontali adatti ad una didattica trasmissiva in cui si enfatizza la disparità tra docente e discente. Ne risulta un’organizzazione dello spazio interno alla scuola identificabile con la “scuola-caserma” orientata a creare relazioni gerarchiche basate su ideologie di ordine, controllo, sorveglianza, disciplina e competizione. Oggi questo modello è fortunatamente entrato in crisi, eppure stentano a vedersi risultati sul piano dell’innovazione architettonica che superino le fatiscenze dell’edilizia scolastica inaugurando una stagione di rinnovamento all’insegna di spazi di apprendimento diversificati. La sfida appare quella di trasformare un ambiente scuola costruito per l’insegnamento in uno centrato per l’apprendimento.
Il discorso su “l’ambiente di apprendimento”, che è una concezione ampia e adatta a comprendere il tema complesso dei processi di crescita, può essere ulteriormente esteso allo spazio urbano. E non certo da oggi: il tema del rapporto tra architettura scolastica e città è trattato in Italia sin dagli anni cinquanta, sia da Michelucci (1949), sia da Rogers e De Carlo (1947, 1972), i quali formulano il problema pedagogico non solo in termini di composizione dell’edificio scolastico, ma soprattutto della sua relazione con il territorio circostante. Sin dagli anni del boom la scuola italiana appare come istituzione chiusa, l’aula come luogo di simulazione delle esperienze concrete di crescita che possono avvenire al di fuori delle mura. Ancora oggi è forte la tendenza a circoscrivere l’esperienza dellə bambinə alla scuola, nella presunzione che questa possa essere un’istituzione autosufficiente. Così la comunità scolastica finisce per isolarsi: poche sono le uscite previste e raro è il coinvolgimento di enti terzi fuori dalla scuola per la strutturazione di attività diversificate sul tessuto cittadino. Eppure, la continuità tra scuola e territorio è un punto di partenza necessario per andare oltre l’architettura scolastica e fare della socializzazione alla città un’esperienza educativa fondamentale. Dunque, se le scuole restano arroccate su se stesse si perde l’ibridazione virtuosa che può nascere nell’incontro con l’esterno, con “l’ecosistema quartiere”.
Già a partire dalle proposte di Francesco De Bartolomeis degli anni ‘80, contenute nel celebre Scuola e territorio – verso un sistema formativo allargato, il territorio viene concepito come sistema vitale della collettività al cui centro si situa la scuola. Nell’ottica del pedagogista campano, un’esperienza educativa rinnovata prevede l’uscita “sistematica” nello spazio urbano per fare l’incontro dei problemi reali, per entrare in rapporto con persone portatrici di competenze diverse da quelle degli insegnanti e svolgere attività che nell’ambiente scolastico non trovano adeguati stimoli e strumenti.
Va così configurandosi la necessità di ampliare gli spazi educativi al di là degli spazi scolastici e tornare a concepire la città come trama urbana di apprendimento.
Lo spazio di apprendimento contempla al suo interno non più solo l’aula scolastica ma diversi altri ambienti con funzionalità varie ed eterogenee. Così strade, piazze pubbliche, musei, cinema, teatri, atelier, gallerie, biblioteche, centri sportivi, archivi, aule studio, auditorium, parchi pubblici, giardini, aree verdi, orti condivisi, aree gioco, centri sociali, aggregativi e culturali, possono offrirsi come ambienti di apprendimento in un ventaglio ampio di possibilità esplorative, di esperienza laboratoriale o di ricerca.
Estremizzando il problema dell’apertura delle attività scolastiche, i pensatori libertari (Goodman 1964 e Ward 1973 in particolare) hanno parlato di una vera e propria “esplosione” della scuola nell’ottica di un’integrazione totale con il territorio e le sue comunità. Pragmaticamente, uno dei punti di sintesi è forse rappresentato dal collegamento programmato e sistematico della scuola con le varie realtà esterne. Su questa scia negli scorsi anni si sono mosse alcune delle migliori sperimentazioni del panorama italiano che hanno inteso dare attuazione pratica alle prescrizioni della teoria. É il caso, ad esempio, della “scuola diffusa” così come concepita da Paolo Mottana e realizzata a Fondazione Foqus dalla scuola “Dalla parte dei bambini”. L’idea ispiratrice è proprio quella di una diffusione delle attività scolastiche sul tessuto urbano, esplorando tanto una bottega quanto un centro sociale, al fine di ritrovare il legame coi problemi reali e con l’esperienza pratica quale fucina di apprendimento. Analogamente, anche i Maestri di Strada hanno lavorato sulla città come spazio di apprendimento, identificando nella didattica itinerante una “materia curricolare” per costruire competenze di cittadinanza, oltre che professionali e cognitive.
Oltre che dagli stimoli legati allo spazio fisico della città, l’apertura della scuola al territorio dipende dalla capacità di attivare reti a fini educativi con gli attori del territorio. In Italia esiste una lunga tradizione teorica e pratica in questo senso. Se però in una prima fase le alleanze educative erano il prodotto della convergenza autonoma di singole realtà o nascevano sotto la spinta di finanziatori del privato sociale, a partire dal giugno 2020 tali alleanze sono state integrate e riconosciute dal Ministero dell’Istruzione nei Patti educativi di comunità. Questo strumento sta offrendo in Italia un dispositivo nuovo per realizzare progetti educativi diffusi e integrati, mettendo a sistema le forze del territorio, le diverse professioni e specializzazioni. Il successo di questo strumento è legato a doppio filo alle disponibilità finanziarie che a tale fine sono dedicate e solamente in futuro sarà possibile compiere una valutazione puntuale degli effetti di una misura che, nei suoi intenti e nella sua filosofia, sembra remare nella direzione corretta.
Conclusione
I processi di trasformazione delle grandi città, legati alla pressione del mercato immobiliare e al ruolo crescente di capitali esterni al territorio, partecipano a dinamiche di espulsione dalla città delle fasce di popolazione più fragili. In un contesto di governo locale che fatica ad implementare interventi di contrasto alla speculazione immobiliare, dove la creazione di valore si intensifica mettendo a reddito sempre più spazio, esiste un tema di primo piano che riguarda l’accessibilità e la vivibilità dello spazio urbano al di fuori del binomio “o circoli o consumi”.
Queste dinamiche descrivono alcuni caratteri di quella che la geografia neomarxista definisce come le città neoliberali, sottolineando come esse partecipino all’emergenza di uno spazio urbano sempre più funzionalizzato, recintato e accessibile a categorie specifiche di city users. Citando Paul Goodman, Colin Ward sostiene che é “impossibile fare a meno di notare che l’urbanizzazione orientata al commercio delle nostre città è destinata a una sola categoria di persone: il lavoratore adulto” (ricco, maschio e bianco verrebbe da aggiungere). A fare le spese di simili trasformazioni è innanzitutto una geografia urbana inclusiva e libera che ha nellə bambinə i primi utenti di riferimento, utenti ideali ai quali guardare per mettere alla prova la qualità dell’esperienza urbana, ovvero la sua piacevolezza, fruibilità, accessibilità.
Integrando i vincoli del mercato, il governo delle città opera una selezione tra popolazioni e pratiche desiderabili, assottigliando la presenza di spazi pubblici dove siano accettati usi non convenzionali. Da un canto la città perde la sua natura di luogo dell’esperienza immediata, perimetro di libera fruizione nel quale far accadere la vita, l’incontro, l’imprevisto e la sosta senza mediazioni funzionali. Dall’altro, proprio in ragione di un mancato riconoscimento del ruolo pedagogico della città, la destinazione d’uso degli spazi è raramente a vantaggio di esperienze di apprendimento, gioco, scoperta, ricerca. La sparizione di un uso libero e incondizionato della città é subita innanzitutto dallə bambinə, costantemente recintati e traslocati da un luogo chiuso ad un altro. Di questo passo la città, con i suoi rischi e la sua conformazione a fini consumistici, si rende sempre più inospitale fino a perdere quasi completamente il proprio carattere educante.
Oggi, vedere bambinə girare in autonomia all’interno delle città è una rarità assoluta: essi sono una “specie protetta”, che non ha veri diritti d’uso in città e per questo sparisce dalle vie e dalle piazze. Viene da domandarsi, però, se della sparizione dell’infanzia dalla città, a rimetterci siano di più lə ragazzə o noi stessi adulti che perdiamo il contatto con una forza vitale, uno sguardo “altro” sulle nostre città e le nostre vite. Restituire autonomia di movimento ai bambini e alle bambine servirebbe a ripopolare le nostre città di una forza creativa capace di riconoscere lo spazio come luogo dell’esperienza non commerciale, piattaforma per l’incontro e perimetro della vita libera in società. Di una città del genere beneficerebbero certo i bambinə ma sarebbe un vantaggio per tuttə e un complessivo passo in avanti nel contrasto alla mercificazione dello spazio urbano. Per restituire i luoghi dove abitiamo e viviamo alla loro funzione primaria: rendere la vita più comoda e meno dura, più gioiosa e comunitaria.
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