Di Stefano Ballerio
Per il percorso narrativo Guerra senza fine
In uno dei suoi primi scritti, Notre-Dame de Rheims (1918), Georges Bataille ricorda il 19 settembre del 1914: le granate laceravano l’aria e «la morte colpiva i bambini, le donne e i vecchi; l’incendio crepitava e infuriava di strada in strada; le case crollavano; si moriva, schiacciati sotto le macerie, bruciati vivi. Poi i tedeschi incendiarono la cattedrale» e l’incendio della cattedrale, il suo divenire immagine di morte e di naufragio, «vascello spettrale, relitto errante», fino a giacere «come un cadavere» su «un immenso cimitero», generò oppressione e angoscia in coloro che l’avevano amata. E tuttavia sembrava a Bataille, o almeno così è scritto in queste pagine, che la cattedrale fosse ancora segno di speranza e di possibile resurrezione.
Forse anche Giovanni Papini pensava alla cattedrale di Reims, nell’ottobre del 1914, quando scriveva su «Lacerba» che perfino dopo le distruzioni della guerra sarebbero rimaste «anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche» e che però dalle rovine sarebbe nata «un’arte nuova» (Amiamo la guerra). Ma dell’esultanza di Papini, della sua euforia di morte o igiene futurista, nelle pagine di Bataille non resta nulla: la speranza di Bataille è di una resurrezione al di là e non tramite la guerra. Nel 1918, sulle virtù vivificanti della guerra nessuno può più illudersi. L’Europa, dove si è combattuto, è una distesa di macerie dalle quali la vita e la storia si sono ritirate. Ernst Jünger, in una pagina delle sue Tempeste d’acciaio (1920), ricorda di essere scampato ai gas e di avere vagato «su immensi campi di rovine, come oltre i limiti del mondo conosciuto», e una volta di essersi stabilito con i suoi uomini in una casa semidistrutta, dove tutto era caos e devastazione: mobili, quadri, specchi, vestiti, libri – tutto era rotto, sventrato, lacerato e distrutto e sparpagliato. Jünger scopre da certe lettere che la casa era appartenuta «a un certo Lesage»: così riceve un nome la vita scomparsa nell’entropia di quel cumulo di macerie e della guerra, ma il nome designa un’assenza – o un’illusione: «In agguato / in queste budella / di macerie / ore e ore / ho strascicato / la mia carcassa / usata dal fango / come una suola / o come un seme / di spinalba // Ungaretti / uomo di pena / ti basta un’illusione per farti coraggio // Un riflettore 15 di là / mette un mare / nella nebbia» (Giuseppe Ungaretti, Pellegrinaggio, 1916). Le macerie, come i cadaveri, sono annullamento della vita e della storia, o l’apparire di una storia mostruosa, il cui angelo «vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine» (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, 1940).
Stefano Ballerio
Ricercatore del progetto “La Grande Trasformazione 1914-1918”