«Domani»

Non solo storia – Calendario Civile \ #17ottobre1961


L’articolo 27 della nostra Costituzione fissa un principio di civiltà:

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Un comma, quello sui trattamenti contrari alla dignità umana, che è stato dibattuto all’interno della commissione per la costituzione e che ha trovato approvazione sostituendo la parole «ricorrere» con «consistere» perché, diceva Aldo Moro, «sono le pene, in quanto eseguite, che non debbono essere in contrasto con la dignità umana». Era il 1947, il 25 gennaio, quando si incardina nella nostra tavola dei valori, dei diritti e dei doveri, un caposaldo di una democrazia e della civiltà giuridica. Sono passati 73 anni da quella discussione, 72 dall’introduzione della legge fondamentale dello stato, ma quel principio è stato ed è costantemente violato, lordato e, nei fatti, espunto da una reale esecuzione. I verbi, violare, lordare, espungere non sono usati causalmente, ma trovano compimento, realizzazione sostanziale e declinazione nei fatti accaduti il 6 aprile 2020 nel carcere ‘Francesco Uccella’ di Santa Maria Capua Vetere. Un caso che racconta più in generale le condizioni di detenzione, il senso di umanità, il perimetro sempre più ristretto di esercizio di cittadinanza, l’allargamento delle frontiere della discriminazione e il compimento di un abuso di potere che resterà nelle pagine della nostra storia patria. Per capire bisogna andare nei luoghi, sui posti, perché l’ideazione, la localizzazione dell’istituto di pena racconta già la sottrazione di diritti e trasforma la detenzione in un confino, relegando ai margini quello che viene inteso come serbatoio di sofferenze. Il disagio della detenzione non si deve vedere. Il carcere non viene concepito come società, come pare del tutto, ma come luogo estraneo, distaccato, per questo, espunto dal racconto e dal vissuto pubblico.

 

La mattanza di stato

La strada che conduce al penitenziario è lastricata non di buoni propositi, ma di buche. Prima dell’ingresso, sulla sinistra, svetta l’impianto di trattamento dei rifiuti che porta sciami di zanzare e un lezzo insopportabile quando si alza il vento. Sulla destra c’è la superstrada che costeggia il muro con il filo spinato, dietro una discarica di pattume. All’esterno dell’istituto un cartello recita “rilascio colloqui”, un accesso apre le porte del carcere ai familiari che vengono a trovare i detenuti. Dall’istituto esce un bambino di due anni, occhi azzurri. Ha lo sguardo smarrito.

«Lo dovevo portare, deve continuare a incontrare il suo papà. Noi abbiamo visto le immagini delle violenze, chi deve esercitare la legge non la può infrangere. Mio marito deve pagare, ma lui e gli altri detenuti non sono bestie, meritano il carcere, non le mazzate», dice la signora mentre stringe il bimbo tra le braccia.

Dentro il carcere l’acqua non c’è, perché non c’è mai stata la rete idrica. Ora una nuova, l’ennesima, gara d’appalto promette l’oro blu per tutti. Prima dell’acqua potabile sono arrivate le botte. Il 6 aprile a Santa Maria Capua Vetere, nel carcere Francesco Uccella, 283 agenti della polizia penitenziaria, molti muniti di casco e non identificabili, hanno massacrato di botte, per oltre quattro ore, i detenuti del reparto Nilo, che ospita per buona parte tossicodipendenti e anche una sezione di pazienti con problemi di salute mentale. La prima domanda che si pongono in molti, ma è possibile lo abbiano fatto senza motivo? La protesta dei giorni precedenti, per il rischio di contagio Covid, per l’assenza di dispositivi di mascherine, per la mancata distribuzione di acqua, era stata violenta? Domande che raccontano quanto si sia sedimentata in tanti l’idea che una reazione violenta, orribile sia comunque all’ordine del giorno e ‘possibile’ nelle patrie galere. E invece non lo è, non lo è mai tranne nei casi previsti dai regolamenti e dai codici, ma mai in quella forma. Nulla era accaduto il 5 aprile se non un’accesa, ma pacifica protesta. I detenuti chiedevano mascherine, acqua e rassicurazioni, il minimo sindacale.

Quando scrivo del pestaggio la prima volta, togliendo ogni margine di dubbio sull’accaduto, è fine settembre 2020. Racconto la mattanza, racconto il detenuto picchiato, racconto il mistero dei bastoni (poi si scoprirà parte del depistaggio per coprire le violenze), la morte di un detenuto, il silenzio del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del ministero.

Ministero che risponde, in parlamento, il 16 ottobre parlando di quella perquisizione come di una «doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto». Nel giugno 2021 vengono arrestati e indagati 120 tra agenti e funzionari della catena di comando. Quando pubblico i video dell’orrore, della mattanza, delle violenze arrivano le reazioni. I partiti, di destra e sinistra, tranne pochissime eccezioni, si risvegliano e prendono posizione. Le immagini dell’«orribile mattanza» sembrano girate in una galera di un regime dittatoriale. Eppure sono riprese dei giorni nostri, del 6 aprile 2020, effettuate con le telecamere di sicurezza del carcere. Una violenza definita «orribile mattanza» dal giudice. «Li abbattiamo come vitelli», «domate il bestiame», «chiave e piccone», dicono gli agenti penitenziari nelle chat finite agli atti dell’inchiesta della magistratura. Nell’elenco degli indagati c’è anche il provveditore Antonio Fullone. Indipendentemente dall’esito dell’indagine, è lui a disporre quella perquisizione divenuta mattanza di stato. I video confermano che il 6 aprile 2020 è stata scritta una pagina nera, buia della democrazia nel nostro paese, che ricorda la «macelleria messicana» della scuola Diaz di Genova durante le manifestazioni contro il G8 del 2001. Le immagini raccontano di agenti, uomini e donne, che partecipano alla brutale aggressione. Il tutto avviene nel pomeriggio per oltre 4 ore.

C’è una scena per esempio ripresa dalle telecamere di sorveglianza nell’area di socialità della prima sezione del penitenziario. I poliziotti, alcuni in tenuta antisommossa altri senza, portano dentro la stanza enorme i detenuti. Al centro c’è un biliardino, ribaltato dagli agenti, ai lati alcune sedie e un tavolo da ping pong. L’ora nella registrazione video segna le 18 e qualche minuto. Obbligano tutti i detenuti a inginocchiarsi. Hanno le mani dietro la testa e il capo appoggiato al muro.

Sono disposti lungo le pareti, sono almeno in trenta. Sostano per diversi minuti. Lì nella sala una volta che sono tutti in ginocchio e umiliati inizia la giostra degli schiaffi, dei colpi di manganello quando i detenuti vengono fatti alzare per uscire. Resta un solo detenuto inginocchiato al quale un agente aveva già sferrato un calcio in pancia. Continuano a picchiarlo, viene preso per i capelli, gli fanno segno di tacere mentre lui zoppica. Stremato, non riesce più a camminare.

Alla fine della mattanza sono state chiuse in isolamento 14 persone. Tra queste c’è Hakimi Lamine, che alla fine, ingerendo un mix letale di stupefacenti, è morto. Prima era stato devastato di botte, destinatario di una violenza senza pari.

Cosa resta di quel giorno, di quel 6 aprile, cosa è cambiato dopo gli appelli, gli annunci, le promesse? In Italia per aumentare la protezione dei senza diritti urge adottare soluzioni subito, tra queste c’è l’introduzione del codice identificativo per gli agenti. Avrebbe evitato, così come a Genova, di accompagnare alla violenza l’impunità. Molti agenti che hanno partecipato al massacro, infatti, sono ancora anonimi, senza volto e senza responsabilità. Le proposte di legge per introdurre i codici identificativi non diventano mai oggetto di dibattito parlamentare, non è servita Genova, non sono servite le inchieste su Santa Maria. Io ero a Genova da studente, sono arrivato a Santa Maria da cronista. Non ho mai creduto fosse cambiato qualcosa, ma neanche immaginavo di dover raccontare un abuso di stato vissuto nello stesso clima di indifferenza e impunità.

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