Università Federico II di Napoli

Almeno fino allo scoppio della pandemia, le periferie – curioso paradosso – erano al centro del dibattito pubblico. Ne parlavano in tanti, in maniera più o meno documentata, per arrivare sempre e comunque alla stessa conclusione: il malessere delle periferie sta all’origine di quell’ondata populista che ha colpito l’Italia, al pari delle altre democrazie occidentali, nel corso degli ultimi decenni, soprattutto a seguito della Grande Recessione.

Periferie e populismo erano considerate, quindi, due facce della stessa medaglia, un connubio vincente in grado di erodere più o meno lentamente il consenso delle forze politiche tradizionali o mainstream, (pallide) eredi delle fratture sociali attorno alle quali si erano strutturati i sistemi politici europei.

In realtà, quando la lente del ricercatore si pone sul fenomeno delle periferie, la realtà (fortunatamente) si complica, diventa più sfumata e alcuni dei luoghi comuni che nel frattempo si erano addensati attorno a questo tema finiscono per vacillare o almeno per ridimensionarsi. Innanzitutto, è bene intendersi su un punto, preliminare rispetto a tutto il resto. Le “periferie”, come vengono descritte e raccontate sui quotidiani con riferimento alle principali città italiane, non stanno necessariamente in periferia. Aree, quartieri o zone di disagio sociale e degrado urbano si possono trovare a due passi dal centro (come a Napoli o Palermo), se non addirittura nel cuore del centro storico (come a Bari e Catania). In modo speculare, le aree urbane di relativo benessere si possono trovare nelle aree collinari fuori dalle tanto decantate “Ztl”, come accade a Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli o Palermo. Quindi, dire “periferia” non basta se non si specifica la dimensione e il grado di marginalità sociale che connota ciascun contesto locale.

Un secondo luogo comune che si deve sfatare sulle periferie è quello riguardante il Partito democratico, e che lo vede sempre più spesso dipinto come “il partito delle Ztl”: una metafora che sta a indicare la mutazione genetica avvenuta nell’elettorato del principale partito di centrosinistra, passato dal rappresentare le borgate e i quartieri popolari alle zone più ricche e culturalmente vivaci delle città. Per dirla con Piketty, una transizione – più subita che ricercata – da “partito dei lavoratori” a “partito dei laureati”, progressista in campo culturale e tendenzialmente liberista (o non-interventista) in ambito economico. In realtà, questa trasformazione è storia recente, soprattutto nelle città del Centro-nord. Infatti, solo nel 2018 il PD ottiene i suoi maggiori risultati nelle aree urbane dov’è più ridotta la concentrazione di operai, mentre cresce – in media di circa 10 punti percentuali – man mano che i quartieri si affollano di quella borghesia colta, progressista e cosmopolita concentrata in determinate aree delle città italiane.

Questo significa che fino al 2013 il PD aveva ancora un profilo elettorale sostanzialmente socialdemocratico, più forte nelle periferie (sociali) che nelle aree economicamente più centrali. Che cos’è successo nel frattempo?

La risposta breve è che è cambiata l’offerta politica sia dentro che attorno al Partito democratico. All’interno, il partito è stato scalato e conquistato da un leader, Matteo Renzi, che nelle forme e nelle politiche ha “rottamato” alcuni storici legami della sinistra con il mondo del lavoro (vedi: Jobs Act con conseguente abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) e dell’istruzione (vedi: Legge sulla Buona scuola), trasformando il Pd in un partito vagamente liberale. Un profilo politico in grado di intercettare i consensi di quei ceti baciati dalle nuove opportunità offerte dalla globalizzazione, ma incapace di trattenere tutta quella fascia di cittadini che si è sentita minacciata dall’allargamento dei mercati e dalla incipiente rivoluzione digitale.

In questo vuoto di rappresentanza si è fiondato, dall’esterno, il Movimento 5 Stelle, che aveva tutte le carte in regola, compresa una certa indeterminatezza ideologica, per attrarre verso di sé tutti quegli elettori alla ricerca di protezioni, soprattutto di tipo economico, rimasti orfani di partiti che ormai avevano sposato – volenti o nolenti – il dogma dell’austerità fiscale. È dunque il M5S il vero partito delle periferie (vedi Fig. 1), che ottiene consensi crescenti nelle aree urbane più disagiate, sia al Nord che al Sud, dove la percentuale di operai minacciati dai venti della globalizzazione è maggiore. Nei quartieri più popolari delle città metropolitane italiane, il partito fondato da Grillo e Casaleggio ottiene consensi nettamente superiori, in media di circa 15 punti percentuali, rispetto alle aree dove risiedono i cittadini in condizioni di maggiore benessere.

Figura 1 – Percentuali stimate del voto al PD, M5S, Forza Italia e Lega alle elezioni del 2018 in base alla percentuale di operai presenti nelle aree subcomunali delle città metropolitane italiane

Questo quadro dei mutamenti elettorali avvenuti in Italia nel corso degli ultimi decenni permette anche di smontare il mito della (nuova) Lega salviniana come partito delle periferie, in grado di offrire rappresentanza ai settori, così come ai quartieri, più svantaggiati della società italiana. Soltanto nel 2018 e limitatamente ad alcune città del Nord, la nuova formazione di Salvini ottiene consensi più elevati nelle aree a maggiore potenziale di disagio sociale, mentre l’espansione al Sud deriva da un rimescolamento di voti nel campo del centrodestra nelle aree urbane meno disagiate.

Quindi, studiare le periferie e il loro comportamento elettorale consente di indagare in profondità i profondi mutamenti avvenuti nel sistema politico italiano a partire del 2008. Tutto questo, però, fa parte di uno scenario pre-pandemico, quando ancora il Covid-19 non si era abbattuto sulle città italiane, colpendo duramente sia nelle aree periferiche che, soprattutto per i suoi risvolti economici, al centro. Ovviamente, è ancora presto per capire come si trasformerà il voto nelle aree urbane a maggiore disagio e quali saranno gli attori politici in grado di intercettare le nuove forme di malessere sociale innescate/acuite dalla pandemia. Quello che sappiamo, e non è poco, è che il “partito delle periferie” per eccellenza, cioè il M5S, oggi attraversa una profonda crisi esistenziale e non è affatto detto che riesca a ritornare ai fasti d’un tempo. Questa situazione apre una grande finestra di opportunità per vecchi e nuovi attori politici, che potrebbe condurre a un’ennesima fase di destrutturazione del sistema partitico.

Ma chi riuscirà a dare voce alla “nuova” periferia post-pandemia? Da questo dipenderà il futuro della politica italiana.


Foto: Far-right nationalist protesters off against LGBT community in Kraków.

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