Ritengo che nella discussione aperta sulla prospettiva di scorporare la crescita economica dall’impronta antropocentrica sull’ambiente venga spesso sottovalutato il ruolo del lavoro. Esso viene acriticamente considerato sempre uguale e appiattito su quello che abbiamo conosciuto nella accezione di valore di scambio, attribuitogli con rare eccezioni dal sistema industriale dei secoli scorsi e – ancor più insolentemente e senza un adeguato sostegno della contrattazione – dalla più recente fase neoliberista. L’eccessiva capacità trasformativa, alienante non solo per lo sfruttamento degli occupati, ma anche sotto il profilo del danno alla natura e agli stessi equilibri climatici e sociali, ci si presenta oggi in tutta la sua potenza attraverso catastrofi naturali e rotture sociali brusche, spingendo molti studiosi e larghi strati di popolazione a dare priorità alla cura e alla prevenzione per riequilibrare il lavoro “trasformativo” finalizzato al profitto di pochi.
Ci si chiede se sia possibile coniugare lo sviluppo economico tutelando allo stesso tempo l’ambiente. Bisogna dapprima constatare che il disaccoppiamento, ad ora, non è mai avvenuto. Timothée Parrique[1] ha recentemente dimostrato che “Il decoupling non sarà sufficiente a garantire la sostenibilità ecologica in mancanza di un ridimensionamento della produzione e del consumo”. Con dati aggiornatissimi e riferiti anche al periodo pandemico, il ricercatore francese attesta che tra il 2005 e il 2015, nei 19 Paesi più sviluppati, si è avuta una riduzione di gas climalteranti di solo il 2.4% l’anno, Si tratta di una cifra irrisoria – tre volte più piccola del taglio annuale del 7.6% delle emissioni globali che sarebbe necessario per raggiungere l’obiettivo di 1.5°C di Parigi. Oltretutto, un’economia “sostenibile” in qualsiasi interpretazione ragionevole del termine dovrebbe prendere in considerazione tutte le complesse interazioni che essa ha con gli ecosistemi, e non solo le emissioni di carbonio. Quindi, andrebbero valutate e conteggiate altre emergenze collegate, come la perdita di biodiversità, l’uso dei materiali non rigenerabili, dell’acqua, i rifiuti e gli scarti ineliminabili.
L’economia è ancora fortemente agganciata alla produzione biofisica e per limitare i danni ecologici occorre inevitabilmente porre dei limiti alle sue dimensioni e alla sua qualità. Un compito straordinario e estremamente innovativo, che, a prima vista, non sembra affatto costituire il nerbo dei piani PNRR presentati a Bruxelles.
Ritengo che sia necessario e urgente programmare la riconversione “verde” della produzione non solo intervenendo su tecnologie essenziali come l’abbandono della combustione dei fossili e il passaggio alle rinnovabili, ma destinando a valori d’uso condivisi la nuova occupazione e puntando non sul disprezzo ma sulla dignità del lavoro, affinché si possa aver cura della Terra, del clima della salute dell’intero vivente e, contemporaneamente, alleviare l’ingiustizia sociale condividendo un destino comune per il Pianeta.
Per riorientare il lavoro occorre studiare e mettere in campo orientamenti per il rendimento e la sufficienza, sia sul versante della produzione che su quello dei consumi. Non vedo altra possibilità che quella di un rapporto nuovo tra le generazioni a venire e la natura mediato dal lavoro: un lavoro che, avrebbero detto Marx ed Engels di metà Ottocento,
“produce l’accrescimento della natura umanizzata senza provocare la scomparsa della primordiale natura amica”. Ovvero, un lavoro che si autolimita a creare valore d’uso in un mondo in cui la sufficienza soppianta l’efficienza e il profitto cessa di essere identificato col fare impresa.
Difficile colmare il gap oggi tra lavoratrici e lavoratori e politica. C’è da parte dell’economia dominante la pretesa di attribuire un valore al lavoro indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge e dai risultati che produce su società e natura. Una società percorsa da ineguaglianza sociale, e per questo condannata a un conflitto difensivo e alla fine svantaggioso pur di salvare posti di lavoro e una natura degradata e consumata da un eccesso di capacità trasformativa messa all’opera per il profitto. Dopo una lunga fase di “oscuramento teorico” strettamente intrecciata alla crescente “invisibilità politica”, le problematiche del lavoro si stanno reimponendo all’attenzione collettiva. spingendo l’innovazione alla creazione di lavori “buoni”, qualificati e ben pagati, per la soddisfazione di bisogni sociali fondamentali. In questo senso il rapporto tra conversione ecologica integrale e qualità e quantità dell’occupazione costituiscono un binomio vincente, anche in assenza della crescita del PIL.
Perfino in un fase come l’attuale, in cui non viene meno il disprezzo per il lavoro, mentre cresce una coscienza che antepone la sopravvivenza allo sviluppo, credo che sia un obbiettivo fondamentale ritenere l’aspetto collettivo, di classe, dell’emancipazione nel lavoro, propedeutico all’esercizio di un potere per la riconversione ecologica delle produzioni. Gli stessi luoghi di lavoro dovrebbero essere sedi attrezzate per una più intensa partecipazione dei lavoratori, dei tecnici, dei ricercatori nella gestione delle filiere che promuovono, reggono e gestiscono la conversione ecologica. E ridurre l’orario sarebbe indispensabile per la diffusione di conoscenze anche dal basso. Il mondo del lavoro è oggi senza dubbio diviso, ma la ricostruzione di un rapporto tra identità sociale e politica passa sempre meno per i grandi aggregati sociali e le grandi narrazioni ideologiche: passa invece attraverso le persone che troveranno la loro unità solo se si sarà capaci di proiettare le proprie ambizioni sul futuro, non sulla difesa dell’esistente: non è questione di scelta tra passato e futuro, ma tra diversi futuri. È per questo che la riconversione deve essere frutto di partecipazione: le alternative vanno concepite, progettate e costruite in conflitti articolati, a partire dai luoghi di lavoro, dagli ambienti, dal territorio, laddove si svolge la vita di tutti i giorni.
Ritengo che le resistenze politico-culturali alla predicazione dell’Enciclica Laudato Si’, siano dovute principalmente al rifiuto di separarsi definitivamente dall’idea dello “sviluppo”. Rompere uno schema così potenzialmente inclusivo, eppure distruttivo, è il compito che Francesco si è dato ed è la misura dell’ostilità incontrata da un autentico capovolgimento di valori, dentro cui era contemplata anche una mancata ricerca di senso del lavoro, come agente unitario, solidale, fraterno, alla fin fine globale.
Oggi, nel contesto della pandemia e delle minacce climatiche e della povertà che rafforzano la consapevolezza dell’interconnessione e della fragilità che regolano gli equilibri di tutto il vivente, la resistenza allo sfruttamento ha un significato che va oltre la tutela della persona o la rigenerazione dell’ambiente e della salute individuale, per collocarsi immediatamente nel solco di una conversione profonda del proprio operare, nel nome prevalente della cura. Ma cura è lavoro, cosciente di sé, autonomo, organizzato per salvare il clima, la Terra, combattere l’ingiustizia sociale.
[1] “Decoupling debunked – Evidence and arguments against green growth” (2019),