L’esperienza del covid-19 ci ha messo irrimediabilmente davanti a noi stessi e alla nostra fragilità, senza più illusioni o mediazioni: ci ha svelato la vita per quella che è e ci ha obbligato a smettere di vedere la vita solamente come avremmo voluto che fosse. Ci ha costretto ad un doloroso tuffo nella realtà che solitamente tacciamo e rimuoviamo: la vita è fragile, siamo mortali e nulla dura per sempre.
Purtroppo, molto spesso, è proprio attraverso un’esperienza di dolore che ci togliamo dal torpore di una vita distratta che nega la morte ed è proprio a causa di un’esperienza che ci scuote profondamente dalle fondamenta che inizia un processo trasformativo di risveglio e rinascita.
Ma proprio così possiamo ricominciare davvero: sapendo ciò che conta e cosa va protetto dell’esistenza.
Prima del Covid non c’era alcuna notizia della morte: era un’esperienza individuale, privata e quasi sempre taciuta, negata e rimossa, apparentemente sempre rimandabile, mai condivisa o accettata come esperienza comune e ineliminabile. Ci siamo trovati, così, analfabeti, spiazzati e persi davanti alla morte che irrompeva indomabile, inchiodati, per di più, all’isolamento nel dolore dell’addio.
Ora la collettività e il singolo chiede una riparazione alla ferita subita e cerca, come è necessario da sempre all’essere umano, un senso in cui collocarla.
Un senso che ora è necessariamente legato alla visione e alla direzione del futuro che proviene da questa esperienza e che faccia i conti con il limite nuovamente scoperto, con la consapevolezza che ne può emergere, con la cura reciproca e le domande che sono scaturite come urgenti e pregnanti:
come possiamo fare di questa pandemia la fonte di un radicale apprendimento e di una lungimirante visione del futuro? Come possiamo vivere sapendoci così esposti alla morte e così fragili? Possiamo fare di questo dramma una occasione di rinascita individuale e collettiva?
Ora possiamo ridistribuire i giusti pesi a ciò che viviamo perchè vediamo ciò che è essenziale, siamo in grado di definire cosa sta in primo piano e cosa può cadere sullo sfondo perché possiamo dirci e accettarci fragili. Non perché ci piace, non perché prima non lo eravamo, ma perché ora ci è evidente e chiaro e possiamo farne risorsa e punto di incontro per una vita bella e autentica.
Una vita che sa la sua fragilità è una vita che gode la meraviglia e non nega il dolore, ma lo affronta e lo trasforma; una vita che regge la complessità del vivere e cerca un equilibrio sempre cangiante ma possibile tra luci e ombre, tra sofferenza e gioia, tra ciò che è importante e ciò che non lo è, tra cura di sé e cura dell’altro e della natura.
“Ora siamo più nudi di prima o, forse, più di prima ci vediamo fragili e quindi ci sentiamo esposti. Questo può farci paura ma può anche aiutarci a sentire la vita che ci tocca […] A questo punto, accettando i nostri limiti impareremo a conoscere le nostre possibilità, dall’onnipotenza cadremo nel timore dell’impotenza per poi abitare con misura la realtà, la vita per quella che è, e potremo accettare noi stessi per quelli che siamo: meravigliosamente e terribilmente umani. È la fase dell’attesa fiduciosa, in cui nascono il coraggio e l’audacia e in cui mette radici la tenacia che ci servirà per tornare a vivere al meglio. (…) Siamo al risveglio di una nuova esistenza, di un nuovo modo di vivere, e il risveglio, come sempre, è un invito. Spetta a noi dare le risposte non tanto a parole, non solo nei pensieri, ma soprattutto nelle pratiche quotidiane”.
da Ricominciare, Mondadori 2020, di Laura Campanello, p.83.
La filosofia, nata come stile di vita e come tessitura tra il pensiero, che interroga l’esistenza e traccia risposte di senso, e l’esercizio quotidiano per imparare a vivere, propone da secoli l’esercizio filosofico della morte definito anche esercizio filosofico del tempo presente: una pratica quotidiana che consente di cogliere come “una e la medesima è l’arte del ben vivere e del ben morire” (Epicuro). Solo avendo davanti agli occhi la propria possibilità di non essere più potremo apprezzare, vivere appieno e curare la vita e ciò che essa contiene. Una risposta di senso possibile, quindi, che non arriva dal negare il tempo che finirà ma dal far splendere, in quanto unico, effimero ed irripetibile, ciò che viviamo. Una cura che non rende meno dolorosa la morte, ma può rendere più preziosa e consapevole l’esistenza.
In questa cornice possiamo allora avere una visione più chiara, più limpida e trasparente di come l’esistenza è e non dobbiamo avere l’urgenza o la cecità di rimuovere ciò che abbiamo vissuto. L’universale condizione umana di vulnerabilità non deve tenerci prigionieri di un dolore muto che si trasforma in depressione, rabbia e rancore, ma deve essere trasformato in meraviglia e gratitudine per ciò che abbiamo da vivere o abbiamo vissuto. Siamo abituati a dare tutto per scontato e la morte come sfortuna.
Forse ora possiamo imparare a dare la morte per certa e inevitabile e la vita come opportunità meravigliosa, per nulla scontata e da custodire e curare: cura impossibile da praticare da soli.
Ora dobbiamo consolare i dolenti, onorare e commemorare i morti, confortare chi si è preso cura di noi e nel frattempo dobbiamo e possiamo far sì che questa esperienza tragica, che è stata pietra d’inciampo, diventi pietra angolare per la costruzione di una capacità di cura che agevoli parole e pratiche di vicinanza, di conforto, di accoglienza, di accudimento, di dialogo autentico e di consapevolezza del vivere.
I legami di cura e di cura reciproca si creano e si fortificano proprio nel condiviso riconoscimento della fragilità che ci costituisce come esseri umani, si costruiscono nel desiderio e nella possibilità di portare sollievo e conforto e di riceverlo da chi ci riconosce e ci accoglie nella nostra fragilità perché la riconosce come potenzialmente sua (questa è la radice dell’empatia). Aver cura vuol dire guardare profondamente qualcuno, stare con lui al punto di risuonare insieme a lui e dare sollievo. Significa smettere di evitare il contagio psichico che la vicinanza ci procura perché proprio questo contagio (parola che abbiamo imparato ad odiare) si faccia terreno della possibile vicinanza e della cura reciproca. E questo terreno è la fragilità.
Avevamo creduto, ci eravamo illusi di poter governare e controllare l’ingovernabile e l’ineluttabile. Ora sappiamo che dobbiamo imparare a conviverci, non certo con passiva rassegnazione ma cercando armonici equilibri che possono darsi solo attraverso la ricerca del senso di ciò che viviamo e che facciamo, attraverso una visione lungimirante che tenga in sé tanto il desiderio che ci anima quanto il senso del limite che ci guida. Perché la vita non abbia valore nella solo nella sua quantità ma soprattutto nella sua qualità e nella sua inesauribile profondità, che le appartiene fino alla fine dei giorni.
Possiamo e dobbiamo ricominciare a vivere, senza negare o dimenticare ciò che è accaduto, anche per poter così onorare coloro che non ci sono più perché la loro morte, almeno, non sia stata vana.
Laura Campanello, analista ad orientamento filosofico e consulente pedagogica, autrice di Ricominciare, Mondadori 2020, Leggerezza, Mursia 2015 in uscita rieditato per Rizzoli a settembre 2021 e di Sono vivo ed è solo l’inizio – riflessioni filosofiche sulla vita e sulla morte, Mursia 2013.
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