Giornalista

È il 21 gennaio 2017, sono passate meno di 24 ore dal discorso di insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump e una marea di persone si riversa nelle strade della capitale al grido di Women’s rights are human rights, in una straripante marcia di protesta che contagia decine di città negli Stati Uniti e all’estero. È la Women’s March of Washington, nata da una proposta lanciata su Facebook da un’avvocata, Teresa Shook, e immediatamente rimbalzata ovunque grazie ai social. Il risultato va ben oltre le aspettative: i media parlano di due milioni e mezzo di partecipanti, la più grande manifestazione nella storia del Paese, che anche nel nome e nella lotta per i diritti civili rende omaggio alla storica marcia su Washington dell’I have a dream di Martin Luther King del 1963.

Berretti rosa intrecciati all’uncinetto, cartelli che inneggiano al woman power, slogan contro la violenza sessista e le disuguaglianze di genere ma anche contro una politica che discrimina migranti, neri, omosessuali e distrugge l’ecosistema.

Una manifestazione femminista e al contempo un avvertimento al presidente appena eletto che c’è una grande parte del mondo che non condivide la configurazione patriarcale e capitalistica della società e che continuerà a vigilare sulla democrazia. A organizzarla, guidarla e farne una proposta politica che si regge su una rete internazionale di organizzazioni umanitarie, associazioni antirazziste e antisessiste, movimenti per la pace e per i diritti civili e Lgbtqia+, sono le donne: milioni di donne in tutto il mondo che rivendicano un mondo più giusto.

Due anni prima, dal confine che divide la Turchia dalla Siria, nelle città gemelle di Qamişlo  e Nisêbin sorvegliate dai militari, il 7 marzo 2015 era partita la Marcia Mondiale delle Donne: con questa scelta, le militanti volevano rendere visibile la lotta che in quel momento le Ypj, le Unità curde di protezione delle donne, stavano portando avanti contro le milizie dell’Isis, nel mezzo di una guerra che dal 2011 divorava la Siria. L’Occidente vedeva per la prima volta in televisione immagini di donne, destinate fino a quel momento soltanto al matrimonio e alla cura della famiglia, lasciare casa e villaggio per andare a combattere gli estremisti islamici a fianco degli uomini.

Allo stesso modo, in questi anni sono stati tantissimi i movimenti femministi che hanno alzato la voce per difendere i diritti di tutti e non soltanto quelli delle donne. Le attiviste che abbiamo visto in prima fila nelle manifestazioni o sulle barricate in Polonia, in Tunisia, in Bielorussia, in Argentina, in Messico e in decine di altri paesi, si sono fatte carico della responsabilità politica di smascherare e contrastare le ingiustizie che caratterizzano le società capitalistiche in crisi e che riguardano i soggetti razzializzati, non eteronormati, disabili, in una parola ogni persona vulnerabile e sfruttata, suscettibile di diventare un ingranaggio nella macchina consumata del neoliberalismo.

Si sono fatte arrestare, torturare e molte sono morte perché fosse visibile la stortura di un sistema iniquo, che uccide il pianeta così come reprime il corpo femminile, inchiodandolo a un destino di oggetto sessuale, di madre ad ogni costo o di ancella destinata alla riproduzione sociale. Chi, infatti, si occupa della casa, dei bambini e degli anziani, se non le donne – le donne più povere a supporto di quelle più ricche, ma tutte le donne in ogni caso in misura infinitamente maggiore degli uomini? Su questo immenso lavoro di cura non pagato, su questa fatica globale misconosciuta si fonda la società capitalistica che conosciamo. Non solo: la ribellione femminile ha portato alla luce la consistenza dell’attacco patriarcale al diritto di autodeterminazione delle donne, cresciuto non sotto dittature ma nei coni d’ombra delle democrazie, in Europa come oltreoceano. Sotto la spinta delle grandi lobby conservatrici, attraverso le politiche antiabortiste portate avanti da innumerevoli associazioni pro life, movimenti di destra estrema cercano oggi di indebolire, se non di distruggere, i principi di uguaglianza, libertà e tutela dei diritti umani conquistati dopo la seconda guerra mondiale.

Ecco dunque che la lotta delle donne è la lotta necessaria di tutti. La grande ondata di ribellione contro la violenza maschile che si è sollevata in Argentina nel 2015 al grido di Ni una menos non a caso si è definita intersezionale, cioè volta a combattere, insieme al patriarcato, ogni forma di sopraffazione – di etnia, di classe, di genere, economica, sessuale, religiosa. Lo ha sintetizzato bene Marta Dillon, che sarà ospite a Milano a We Women, quando a Verona, in occasione della manifestazione di protesta contro il Congresso mondiale delle Famiglie del 31 marzo 2019, ha ricordato che

«Quando parliamo di aborto stiamo parlando di fame, quando parliamo di sfruttamento del lavoro parliamo della relazione con il pianeta e il clima. Il femminismo è una prospettiva capace di rappresentare tutti i conflitti politici e sociali».

Sono movimenti che vengono dal basso, dai margini, da chi si sente escluso dalla narrazione dominante e prende voce per immaginare un mondo al rovescio, dove il potere viene rifiutato perché si coniuga con la sopraffazione, dove si privilegiano le relazioni rispetto all’accumulo del denaro e a un lavoro spersonalizzante; dove, soprattutto, al di fuori della logica perdente del profitto, c’è posto per tutti e per tutte. Le donne, oggi più che mai, grazie anche al rafforzarsi delle reti che le uniscono, sono protagoniste di una riscossa politica e sociale che punta ad essere una forza di cambiamento radicale, nella consapevolezza che una società equa non può prescindere dalla fine della disuguaglianza di genere e la liberazione delle donne a sua volta non può che interessare ogni altra forma di liberazione.


Foto di Lum3n da Pexels.
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