Se c’è un fenomeno che ha dominato la politica nel mondo occidentale (e non solo) negli ultimi anni, è difficile non pensare all’irruzione sulla scena politica di una pletora di nuovi attori politici “challenger” in grado di sfidare con successo i partiti tradizionali “mainstream” e spesso di imprimere importanti svolte politiche. Da Trump alla Brexit, da Tsipras a Marine Le Pen, a Beppe Grillo, Pablo Iglesias, Matteo Salvini e altri; tanto da suggerire una vera e propria crisi della rappresentanza, visto che molti di questi attori hanno apertamente messo in discussione la legittimità dei loro concorrenti “mainstream”.
Di fronte a questa proliferazione di nuovi attori, il quadro interpretativo di studiosi e commentatori si è prevalentemente limitato a ricomprenderli tutti in una generica categoria di “populisti” (a partire da Mudde, 2004), visto peraltro che le proposte della maggior parte di essi non corrispondono alle categorie classiche di sinistra e destra. Analisi più sofisticate (a partire da Kriesi et al., 2008) hanno sottolineato la capacità di questi attori di mobilitare i cosiddetti perdenti della globalizzazione, tuttavia facendo appello a categorie essenzialmente culturali:
questi “perdenti” sarebbero poco istruiti, nazionalisti, chiusi in se stessi, e quindi rifiuterebbero il cambiamento verso un mondo più integrato perché non sono in grado di capirlo e lo percepiscono come una minaccia alla loro identità, e non per particolari motivazioni economiche.
Va tuttavia ricordato che queste teorie sono state elaborate su paesi dell’Europa nord-occidentale, i cui sistemi produttivi hanno forse tratto addirittura più vantaggi che svantaggi dalla globalizzazione economica.
“Populismo” o semplicemente conflitto post-ideologico?
Alcune ricerche recenti ci suggeriscono tuttavia un’interpretazione diversa. In particolare, emerge: (1) che la maggior parte degli attori cosiddetti “populisti” in realtà sono caratterizzati da posizioni di policy ben identificabili; e (2) che all’origine dei cambiamenti elettorali degli ultimi anni ci sono inquietudini soprattutto di natura economica. Entrambi i risultati emergono da ricerche condotte nell’ambito del progetto ICCP (Issue Competition Comparative Project), che ha studiato (su dati di opinione pubblica e di comunicazione partitica su Twitter) le elezioni politiche tra 2017 e 2018 in sei importanti Paesi europei. Una delle idee fondamentali del progetto era proprio quella di cercare di andare oltre la semplice spiegazione “populista”, cercando invece di indagare, se esistenti, le basi di policy del successo di questi nuovi attori.
Il primo risultato importante di questa ricerca è che effettivamente le strategie dei nuovi attori challenger sono chiaramente caratterizzate da una combinazione originale di policy, definita da due aspetti specifici (De Sio & Lachat, 2020):
- Il primo aspetto è l’enfasi sul conflitto. Sullo sfondo ci sono le grandi trasformazioni del nostro tempo: globalizzazione economica, integrazione europea, digitalizzazione, migrazioni. Al contrario dei grandi partiti mainstream, che (a partire dagli anni ’90) le avevano raccontate in modo consensuale e win-win, presentandosi come coloro che erano in grado di gestirle senza conflitti da problem-solvers quasi tecnocratici, questi challenger si concentrano invece sulle contraddizioni e sui conflitti generati da questi processi. In questo c’è la nuova riscoperta di qualcosa di molto tradizionale, ovvero la politica come mobilitazione del conflitto.
- Al tempo stesso questa mobilitazione del conflitto da parte dei challenger ha un secondo aspetto molto innovativo. La politica del Novecento era infatti stata dominata da una contrapposizione sinistra-destra che semplificava quello che in realtà era uno spazio politico a due dimensioni, economica e culturale. Così la destra tradizionale era conservatrice sul piano culturale e liberista sul piano economico (volendo intervenire poco sulle disuguaglianze economiche della società); mentre la sinistra tradizionale era progressista sul piano culturale e a favore dell’intervento dello Stato in economia per ridurre le disuguaglianze. Ecco: la grande novità di questi partiti sfidanti è la rottura di questo schema. In estrema sintesi, un tratto che accomuna molti di questi nuovi attori è una strategia post-ideologica, che combina posizioni tradizionalmente “di destra” su temi “culturali” (ad esempio immigrazione e per certi versi Europa) con altre tradizionalmente “di sinistra” su temi economici (soprattutto quelli legati al welfare e al lavoro). Una combinazione inedita, che – combinata con l’abilità di alcuni di questi leader (Marine Le Pen in primis) nel liberarsi di alcune posizioni più tradizionali di destra – ha permesso loro di raccogliere spesso i voti dei ceti economicamente più disagiati.
L’inattesa importanza dell’economia
Ma un aspetto decisamente più sorprendente emerge da una ricerca successiva (Angelucci e De Sio forthcoming 2021). Quando si indagano in maggiore profondità le determinanti individuali del cambiamento di voto in questi ultimi anni, si scopre che (per tutti i partiti, e anche per questi challenger), a contare maggiormente per il cambiamento sono stato fattori economici: in particolare la credibilità di partiti e leader nel tutelare il welfare e il lavoro. Un dato per certi aspetti sorprendente, soprattutto in un contesto in cui il dibattito pubblico appare invece dominato da temi culturali come immigrazione ed Europa. Tanto da suggerire l’idea di un “grande malinteso”, in cui siamo tutti convinti che l’inquietudine che attraversa l’Europa sia legata ad aspetti culturali (immigrazione, integrazione europea, diritti civili), mentre invece la domanda che emerge con forza dai comportamenti di voto appare essenzialmente una domanda di protezione economica.
Tabella 1 – numero di partiti per cui la credibilità su varie “issues” ha portato nuovi voti in misura statisticamente significativa (sintesi da Angelucci e De Sio forthcoming 2021) |
Se la politica governa sempre meno l’economia
Ma quale può essere l’origine di questo paradosso? Il tema è di importanza centrale, e ci darà da riflettere per i prossimi anni. Tuttavia è difficile non pensare a quella letteratura scientifica, a partire dalla teorizzazione della tensione tra responsiveness e responsibility (Mair, 2011), che ha mostrato chiaramente come i processi da un lato di globalizzazione economica (in tutto il mondo) e dall’altro di integrazione sovranazionale e multi-level governance(soprattutto in Europa) hanno introdotto una serie di vincoli sia hard (legalmente vincolanti) che soft (indiretti) alle possibilità di manovra dei governi nazionali, soprattutto nel governo dell’economia. Non soltanto per i classici casi dei vincoli al deficit e al debito nei paesi dell’Eurozona, ma anche più in generale per le politiche industriali e del lavoro, dove è sempre più difficile intervenire, in un contesto di competizione internazionale dove gli investitori possono spostarsi liberamente tra paesi.
Non stupisce quindi che negli ultimi anni questi grandi temi di politica economica siano finiti sostanzialmente ai margini del dibattito pubblico (con gli stessi attori challenger che li menzionano in maniera ambigua e a volte poco più che simbolica); tuttavia in contraddizione con la rilevanza di questi temi per gli esiti elettorali, peraltro in linea con l’importanza dominante attribuita dai cittadini ai temi economici in tutti gli ultimi anni (vedi es. ITANES, vari anni). Ecco quindi che, se si vuole alzare lo sguardo alla ricerca delle radici più profonde dell’inquietudine che sta attraversando i paesi europei, è difficile non pensare di dover riflettere sulle grandi trasformazioni del nostro tempo, su come stanno cambiando la vita quotidiana delle persone soprattutto in senso economico, è sul perché la politica non appare oggi in grado di dare risposte efficaci. Individuare risposte a queste domande è senz’altro estremamente impegnativo; ma è probabilmente lì che potremo trovare la risposta a queste inquietudini, e la possibilità di costruire una democrazia migliore e più efficace nei prossimi decenni.
Riferimenti bibliografici
De Sio, L., & Lachat, R. (2020). Making sense of party strategy innovation: Challenge to ideology and conflict-mobilisation as dimensions of party competition. West European Politics, 43(3), 688–719. https://doi.org/10.1080/01402382.2019.1655967
Kriesi, H., Grande, E., Lachat, R., Dolezal, M., Bornschier, S., & Frey, T. (2008). West European politics in the age of globalization. Cambridge University Press.
Mair, P. (2011). Bini Smaghi vs. the Parties: Representative government and institutional constraints [Working Paper]. https://cadmus.eui.eu//handle/1814/16354
Mudde, C. (2004). The populist zeitgeist. Government and opposition, 39(4), 542–563.