Non solo storia – Calendario Civile \ #28maggio 1961


Quando Jean Paul Sartre affrontò il tema della legittimità del mondo non governativo, dichiarò che desiderava rispondere da subito a un’obiezione teorica che sarebbe stata sollevata contro di esso: «se noi siamo qui, oggi, senza alcun mandato, è perché nessuno poteva mandarci». La frase fu pronunciata in occasione di una delle prime sessioni del Tribunale Russell (quella di Stoccolma). Il contesto era quello dei cd .tribunali di opinioni, il cui precursore è stato il Tribunale Russell, instituito nel 1966 per giudicare i crimini commessi dagli USA nel corso della guerra del Vietnam. Si trattò di un’esperienza decisamente innovativa, continuata dapprima in occasione del Tribunale Russell II sulle violazioni in America Latina, e quindi da Lelio Basso attraverso il Tribunale Permanente dei Popoli.

Tuttavia, come ogni ‘processo’ innovativo, anche questo necessita, per essere compreso, di un’adeguata contestualizzazione. Il periodo storico nel quale fu pronunciata la frase era segnato dalla nascita del mondo ‘non governativo’. Infatti appena pochi anni prima, nel 1961, un avvocato britannico, Peter Benenson, restò indignato alla notizia che due studenti portoghesi fossero stati incarcerati per aver semplicemente ‘brindato’ in nome della libertà. Il 28 maggio pubblicò un appello per la loro amnistia in un noto periodico inglese (The Observer) e lanciò una campagna di mobilitazione che registrò una tanto inattesa quanto formidabile risposta. Fu l’atto di nascita di Amnesty International, un «movimento popolare per i diritti umani» – come lo ha definito, in uno stimolante confronto, il Prof. Antonio Marchesi, per cinque volte Presidente della sezione italiana.

Si tratta di una delle più antiche e influenti organizzazioni non governative del mondo, indipendente da ogni matrice politica, economica e ideologica, in grado di coinvolgere negli anni svariati milioni di persone.

Amnesty è nota per il suo approccio bottom up, che la distingue da altre organizzazioni dello stesso tipo: chi di noi non hai mai incontrato i suoi giovani e volenterosi attivisti nelle strade di numerose città? lo stesso non potrebbe dirsi, ad esempio, per Human Rights Watch, la cui attività è segnata da un metodo inverso, di tipo top-down.

La base dell’Organizzazione promossa da Benenson – stando ai dati riportati nel sito internazionale: dieci milioni gli aderenti – è costituita da un eterogeno gruppo di persone che spazia dagli attivisti ai donatori, sino agli specialisti delle singole discipline. Al vertice è posto l’International Board, coordinato da un Segretario (oggi: Agnès Callamard, già Relatrice speciale delle Nazioni Unite per le uccisioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie) e investito del compito di definire le linee strategiche dell’Organizzazione nel quadro delle numerose aree di intervento. Queste ultime ricalcano il catalogo dei diritti umani sviluppatisi nel Novecento (sul quale, per un  primo approfondimento, rimando  al volume, a cura di Marcello Flores, Quando la piazza faceva la storia). Vi si annoverano, inter alia, il supporto alla giustizia internazionale, la cooperazione nelle crisi umanitarie, il controllo delle condizioni detentive, delle politiche migratorie e climatiche, oltre ai grandi temi che sono valsi ad Amnesty importanti riconoscimenti internazionali, come il Premio Nobel per la pace nel 1977: il contrasto a ogni forma di privazione delle libertà per ragioni discriminatorie, insieme con la lotta contro la tortura e contro la pena di morte nel mondo. Il rapporto annuale, redatto in numerose lingue e suddiviso per aree e per Stati (qui l’ultimo concernente l’Italia) rappresenta un importante indicatore dello stato di salute dei diritti umani nel mondo, in fondo uno dei pochi paradigmi condivisi – quanto meno nel mondo occidentale – per apprezzare il tenore politico-sociale di una comunità.

Ma non è stato sempre così. In un primo momento l’azione di Amnesty era concentrata su un numero limitati di casi e il vero cambiamento di passo è avvenuto all’inizio del nuovo millennio, allorquando si è passati da un mandato circoscritto a quel settore che gli specialisti definiscono i diritti cd. di prima generazione (civili e politici) ad uno diretto alla protezione dei diritti umani in senso esteso,  includente anche i diritti cd. di seconda generazione (economici, sociali e culturali). Tale circostanza, insieme con la progressiva dismissione della regola originaria per la quale le sezioni nazionali non potevano occuparsi delle violazioni nel proprio Stato, ha in parte cambiato la natura dell’Organizzazione, accentuandone la vocazione, per così dire, generalista.

Ma come si colloca, oggi, Amnesty, nella galassia del ‘non governativo’? In uno sforzo di sintesi, l’ex presidente dell’American Society of International Law, la giurista Anne-Marie Slaughter, ha suddiviso  le organizzazioni non governative in tre possibili categorie: quelle che nascono in supporto dello Stato e che sostanzialmente servono come copertura per gli abusi (si tratta dei cd. GONGO, Government Organized Non Governmental Organization); quelle, di matrice liberale, che nascono contro lo Stato; e quelle di matrice istituzionale che invece si limitano a ignorare lo Stato (Id., International Law and International Relations, in Recueil des cours, 2000). Escludendo per ovvie ragioni i GONGO (per lo più riconducibili a esperienze di matrice autoritaria), alla mia domanda diretta a comprendere quale fosse la collocazione più appropriata di Amnesty International, l’ex Presidente Antonio Marchesi ha offerto una risposta che ho trovato convincente: l’Organizzazione non è riferibile né alla seconda categoria, ‘contro lo Stato’, né alla terza, ‘ignorando lo Stato’. Piuttosto, Amnesty si pone in una dinamica di confronto dialettico con quest’ultimo. Certamente non può permettersi di ignorarlo, anche perché, nonostante gli sforzi volti all’internazionalizzazione delle forme di tutela, lo Stato resta il luogo primario per l’attuazione dei diritti.

Da ultimo resta da comprendere da quale forma di autorità tragga legittimazione un’organizzazione non governativa come Amnesty, avulsa da ogni contesto statuale o inter-governativo. L’interrogativo è solo in apparenza formale, perché esso investe un discorso più ampio e quanto mai attuale che rimanda alla possibilità di rimodulare il concetto tradizionale di rappresentanza democratica.

Che cosa accade quanto l’intervento diretto alla promozione o trasformazione di una scelta politica espressa in una legge o in un trattato internazionale è promosso dal ‘non governativo’? In nome di chi si esprime questo mondo? A quali controlli è sottoposto? Quali sono i confini da non oltrepassare?

Ho da sempre trovato terribilmente efficace la risposta, in forma di premessa, di Sartre citata in apertura (se noi siamo qui, oggi, senza alcun mandato, è perché nessuno poteva mandarci). La legittimazione nella protezione dei diritti umani, il fondamento ultimo del ‘non governativo’ volto a questo scopo, consiste innanzitutto nell’assenza di un potere che possa autorizzarlo. Se Peter Benenson nel maggio del 1961 ha acceso una candela avvolta in un filo spinato, quella riportata nel logo di Amnesty, è perché, appunto, nessuno avrebbe potuto farlo.

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