Università di Pavia

Il tempo della pandemia è anche un tempo d’immagini.

Tutti i tempi, per la verità, sono stati tempi d’immagini: fin dall’istante, almeno, in cui una prima creaturina – così me l’immagino, tra fantascienza e paleontologia –, natante o strisciante che fosse, mise fuori dalle sue antenne qualcosa che poteva funzionare come un paio d’occhi, e vide quella gran confusione che la circondava, piena di vita e di apparente anarchia. Da allora non c’è relazione col mondo e con ciò che pensiamo ne stia fuori, senza le immagini. Senza le immagini non esisterebbe l’immaginazione, e senza l’immaginazione non esisterebbe il mondo, e neanche noi esisteremmo, che stiamo al mondo per immaginarlo.

Ma il distanziamento e la tecnologia meravigliosa che s’è messa al suo servizio hanno prodotto un’impensabile moltiplicazione delle immagini.

Siamo diventati tutti presbiti – al modo degli antichi Romani, secondo quel che insegnava all’Università di Vienna un famoso storico dell’arte: la vista da vicino ci confonde, ma da lontano siamo aquile: i Romani, del resto, non riuscivano a leggere il fumettone delle guerre di Traiano, inerpicandosi con lo sguardo fin sulle volute più alte della sua Colonna?

Sugli schermi dei portatili corre una fantasmagoria d’immagini, che sembra annullare, come si dice, le distanze, ma in realtà, scompaginandone le relazioni spaziali e temporali, le confonde in una lontananza volatile e insensata. Nel vortice bidimensionale e luccicante delle immagini vengono risucchiati senza distinzione, come ritagli d’una forbice capricciosa, volti amati e maschere impassibili, luoghi di memoria e discariche di rovine innominate, storie vere e storie false, storie che sembrano false e forse sono state vere, gesti scorporati e frantumi cimiteriali di anatomie: qualcosa che rassomiglia all’anarchia del tempo delle creaturine antennute, ma senza i brividi vitali che l’attraversavano.

Le immagini degli schermi sono per definizione frammenti. Sono silhouettes scappate fuori da una caverna come i pipistrelli di Wuhan. È la frammentazione il vero contagio. Stiamo smarrendo il contesto.

Dove sono le cornici? Le rassicuranti cornici! Confini netti e senza varchi, quand’anche aggrovigliate di girali e campanule come quelle proiettate sui pavimenti a mosaico di Pella. Erano lì per tranquillizzarci. Per dirci, a esempio, che il daino aux abois non l’avremmo mai veduto agonizzare sotto i colpi dei due giovani macedoni, perché l’attimo fecondo ce lo restituisce ancora energico e battagliero, e quella cornice di fiori ne impedirà lo scempio.

Ora non ci sono più ghirlande impenetrabili intorno all’immagine. Un orlo opaco sembra chiudere lo specchio del computer, ma sappiamo che, intorno e fuori, la Rete è un oceano senza sponda. Anche la nostra immagine individuale si appiattisce e si scheggia, inseguita dalle videochiamate. Tutti frammentati, tutti bidimensionali, tutti a mezzobusto: come gli imperatori o i filosofi e i giornalisti di una televisione che non c’è più. E quando cessa la videochiamata e crediamo di ritornare interi, messa fuori la testa di casa come chiocciole dal guscio, provvediamo subito a dimezzarci la faccia (quella vera) con la canonica mascherina, intravvedendo di fuori, nella nebbia di lenti appannate, un andirivieni (distanziato, s’intende) di gente incredibile, camuffata da odalische e da banditi di western.

Uscite da qualunque cornice, le immagini si stanno comportando da virus. Cercano immaginazioni in cui annidarsi e sopravvivere e per far questo, naturalmente, mutano, con piccoli o grandi slittamenti delle loro caselle genetiche: cambiano funzione e perciò senso, diventando altro da quello che sono state. Ma nel garbuglio dei significati permangono i grumi d’emozione che le hanno generate e fin dall’inizio accompagnate: il gesto di un braccio rilassato lungo il fianco, la mano stretta a pugno intorno a un oggetto, una ciocca di capelli che s’addensa e scivola sopra una spalla, il volo di fata della danzatrice, l’inerzia immensa di un corpo senza vita. 

Anche questo ci hanno insegnato i migliori maestri: l’educazione al dettaglio. In un immaginario senza più cornici, resta appunto il dettaglio, la molecola visuale che raccoglie tanti atomi della più varia provenienza. Con misteriosa dissolvenza incrociata, la Madre dell’Ucciso – icona tagliente di un bronzetto sardo –, che porta sul grembo il peso del figlio troppo adulto, si rifrange nella ragazzina ammantata di marmo immaginata e fatta vera da Michelangelo, e questa ancora vive nella memoria postmoderna di Kim Ki-duk e nei suoi fotogrammi che l’hanno trasformata, di nuovo, nell’immagine illusoria di una madre, che non è madre, ma è come (forse) se lo fosse.

Nel tempo della pandemia (e dopo, soprattutto, il tempo della pandemia) siamo chiamati a un lavoro a metà strada fra quello di chi curi un montaggio cinematografico e di chi rimetta insieme i lacerti di un intonaco dipinto o restauri un vaso frantumato: distinguere e riordinare le sequenze, riconoscere e interrogare i margini delle fratture e, immaginando un insieme che sarà o è già stato, ricomporre i frammenti. Ci pare di scorgere un’etica del risarcimento, in questi esercizi pazienti di lettura, dentro alla vigna malata del mondo. 

 

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