L’omotransfobia agisce contro una minoranza, quella delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali (LGBTI), storicamente sottoposta dall’oppressione dello stigma a una feroce “invisibilizzazione”, e ciò spiega in parte l’invisibilità che oggi sconta il fenomeno discriminatorio in questo settore. Riconoscerlo, nella sua dimensione personale e sociale, è il primo intervento nella direzione della piena applicazione del principio di eguaglianza indicato all’art. 3 della Costituzione. D’altronde, chi è LGBTI lo è in ogni fase di vita, da quando è bambino e fino l’età adulta, e in tutti gli spazi che abita, dalla scuola al lavoro.
Come dimostrano recenti studi, la crisi sanitaria da SARS-CoV-2 fa persino scorgere una sorta di gerarchia all’interno della sigla LGBTI, per cui vi sono sottogruppi che si collocano al gradino più basso dell’inclusione, e tra questi vi sono le persone trans. Occorre precisare che il termine trans (al pari della sua variante transgender) ha diversi usi: nel prosieguo è da intendersi come “termine ombrello”, che include le persone che transitano da un sesso biologico all’altro (female to male e male to female), nonché coloro che non si riconoscono nel binarismo di genere (donna o uomo), e comunque nel genere o nel sesso assegnato alla nascita.
Ciò precisato, esempi di nuove discriminazioni legate alle misure di contenimento sono forniti dal racconto delle giovani generazioni di studentesse e studenti trans, che in virtù di esse sono tornate a vivere presso la casa familiare. Questo ha significato per molti di loro reinserirsi in ambienti ostili, perché il coming out non è stato accettato o non è stato fatto, e subire pesanti conseguenze personali e sociali legate alla propria condizione.
Così, indossare i panni del sesso biologico, sentirsi appellati col dead name, subire misgendering, ovvero essere indicati con i pronomi e le desinenze non corrispondenti alla propria identità di genere, sono condotte che comportano una lesione dell’identità personale, protetta dagli articoli 2 della Costituzione e 8 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla legge n. 164 del 1982, e cioè di un diritto fondamentale della persona, come riconosciuto dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 161 del 1985, 221 del 2015 e 180 del 2017 che, sul fronte della salute, causano l’aumento della metà del rischio di suicidio tra le giovani generazioni transgender (S. T. Russell, Chosen Name Use is Link to Reduce Depressive, in Journal of Adolescent Health, 2018, 503-504).
Ampliando lo sguardo, gli esempi di quanto la crisi sanitaria stia colpendo tante, tutte le categorie vulnerabili potrebbero moltiplicarsi, ma quello che in verità interessa sottolineare è un altro aspetto, e cioè che lo studio della discriminazione omotransfobica non dispone di strumenti di monitoraggio capaci di restituire la reale portata del fenomeno. Del resto, un rapido sguardo al monitoraggio di altri fattori, sembra condurre a simili conclusioni.
Da tempo gli studi di settore segnalano due snodi del problema, da un canto l’under reporting, e cioè l’assenza di denunce, che determina una sottostima del fenomeno discriminatorio, e da altro canto l’under recording, ossia l’impossibilità di registrare la natura omo transfobica della condotta, ciò in ragione del fatto che il software del Centro Elaborazione Dati (CED) che le forze dell’ordine hanno l’obbligo di alimentare, consente di flaggare soltanto le fattispecie sanzionate come reato dall’ordinamento penale. Al più, se una persona è destinataria di insulti, minacce o altre forme di violenza fisica o verbale, perché tiene per mano la compagna o il compagno dello stesso sesso, tali condotte saranno registrate come reati comuni e lo stampo omotransfobico del fatto potrà essere tratto dalla «sintesi essenziale» redatta dalle forze dell’ordine, sempreché che se ne faccia menzione.
Ciò, a fronte di taluni aspetti problematici, come la difficoltà di definire la nozione di odio e discriminazione ai fini penali, sottolinea un profilo di rilievo del “ddl Zan”, e cioè del testo unificato approvato dalla Camera dei deputati e all’esame del Senato della Repubblica, a. s. n. 2005 del 2020, che mira ad estendere talune parti della ex legge Reale-Mancino, dedicate a reprimere discriminazioni, odio e violenza, per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi ad altri fattori, quali sesso, genere, disabilità, oltre che all’orientamento sessuale e all’identità di genere.
La sua approvazione, da un lato, consentirebbe alle forze dell’ordine di registrare i crimini d’odio omo transfobico come tali nel CED e, da altro lato, agevolerebbe un dialogo basato su (almeno) la dimensione penale del fenomeno, soprattutto a livello europeo, sede di elaborazione di programmi assai ambiziosi, come lo è la recente LGBTIQ Equality Strategy 2020-2025. Invece, i dati che l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) comunica alle Istituzioni europee hanno quali fonti da un lato le segnalazioni dirette all’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori (OSCAD) del Dipartimento di pubblica sicurezza, che sono poco utilizzate perché non sostituiscono la denuncia o la querela, e dall’altro lato i report delle associazioni, che raccolgono per lo più dati sociali, ossia in formati non standardizzati e cioè privi della “qualità” necessaria per essere trattati.
Sul piano costituzionale, l’assenza di un sistema di monitoraggio rende arduo individuare gli ostacoli, economici e sociali, che impediscono il pieno godimento dell’eguaglianza di fatto. Secondo la prospettiva basata sui dati, che troviamo a premessa dei provvedimenti di lockdown o di passaggio dalla fase 1 alla fase 2, i decisori non dispongono di una realtà empirica per orientare le scelte: ciò ha un ulteriore riflesso nella capacità della spesa pubblica di essere impiegata là dove serve. Rende inoltre complesso monitorare il raggiungimento degli impegni dell’Agenda 2030, che lega lo sviluppo sostenibile al rispetto (dell’ambiente) e dei diritti fondamentali della persona.
La creazione di una infrastruttura del dato delle discriminazioni, non soltanto LGBTI a ben vedere, non è affatto operazione semplice, richiede una strategia di monitoraggio e analisi, una infrastruttura del dato e una governance multilivello. Ciò significa formazione su come procedere e a riguardo si indica quella offerta dall’Ufficio per le Istituzioni democratiche e i diritti umani dell’OSCE, attraverso il programma Information Against Hate Crimes Toolkit (INFACHT).
Del resto, la disponibilità e la diffusione dei dati relativi al fenomeno delle discriminazioni di genere sono state il motore dei traguardi normativi – non sufficienti dato il drammatico persistere del fenomeno – di contrasto alla violenza maschile sulle donne. La capacità di individuare le specificità del fenomeno non soltanto ha reso possibile la raccolta di dati e il conseguente monitoraggio, ma ha anche generato consapevolezza sociale, attraverso la definizione e l’entrata in uso di un lessico specifico (femminicidio, stalking, etc.), e gli esiti legislativi che trovano la propria ratio proprio in quelle definizioni e in quei dati.