Università degli Studi di Milano

Da settembre ad oggi, la scuola è diventata protagonista nel dibattito pubblico e politico associato alla pandemia Covid-19, sebbene principalmente interpretata come un “pericolo”. La scuola è stata infatti considerata un possibile fattore di ampliamento della catena di trasmissione del virus, aumentando così il rischio di contagio tra la popolazione. Alla riapertura scolastica è stata infatti imputata, occasionalmente ed erroneamente, la causa principale della seconda ondata della pandemia avvenuta tra novembre e dicembre 2020. Ad oggi, tuttavia, sono ancora pochi gli studi scientifici in grado di dimostrare empiricamente e con rigore metodologico che la scuola in sé, più di ogni altro fattore, sia stata un moltiplicatore di infezioni. Il confronto politico tra governo ed opposizione si è fondato spesso su temi operativi legati ai banchi a rotelle, alle mascherine da indossare dai bambini, alla misurazione della febbre; tutti temi pertinenti che esternano preoccupazioni concrete, e che riguardano 8 milioni di studenti e circa 1 milione di insegnanti nella scuola italiana.

La scuola italiana è diventata terreno di battaglia politica sulla quale si è aperto un dibattito molto acceso, alle volte anche violento e di carattere personale, privo tuttavia di contenuti sostantivi o proposte costruttive. Nell’agone politico si sono riversate correnti populiste capaci di allontanare la scuola dalla sua vocazione democratica; queste correnti hanno ritratto le istituzioni scolastiche, non solo quelle italiane, come una minaccia per la salute pubblica ed il benessere dei cittadini. I Governatori di alcune Regioni hanno deriso i bambini che piangevano per tornare sui banchi. In questo clima populista, non c’ è da stupirsi che il sacrificio della scuola sia avvenuto prima della chiusura di centri estetici e parrucchieri, i quali hanno invece continuato ad operare durante la chiusura scolastica. Il dibattito pubblico non solo riflette il carattere populista di alcune posizioni, ma anche lo scarso interesse da parte delle élite politiche verso una visione complessiva ed olistica dell’istruzione.

Quando il noto filosofo e pedagogista americano John Dewey discusse dell’istruzione nella sua pubblicazione del 1916 “Democrazia e istruzione” (Democracy and Education), spiegò che la scuola è un’istituzione sociale caratterizzata da una marcata “funzione civica”. Si tratta di un’opera classica della filosofia dell’educazione, ma marginalizzata per lungo tempo in Italia a causa della diffidenza da parte degli organi di controllo fascisti. Per Dewey, la funzione civica dell’istruzione è legata alla formazione dei futuri cittadini, obiettivo primario che l’educazione continua a perseguire nelle società democratiche. La formazione avviene progressivamente, seguendo un processo di graduale sviluppo del bambino per il quale la scuola è “luogo di vita”, esperienza, e non solo quindi un’istituzione dedicata alla produzione di competenze. È proprio di questo luogo che i bambini italiani sono stati privati, prima a causa della pandemia e poi della chiusura prolungata della didattica in presenza. In questo senso, la risposta alla crisi pandemica in Italia non è stata adeguata.

Come la scuola è un’esperienza formativa di sviluppo progressivo per i bambini, così la democrazia è per Dewey più di una forma di governo, o di regole procedurali scritte su carta. La democrazia è una forma di vita associata, in cui l’individuo educato è libero di esprimere le proprie potenzialità ed idee nel rispetto di uno spirito ed una coscienza critica del mondo che lo circonda. Possiamo dunque sostenere che l’impresa formativa della scuola in Italia sia stata, durante la crisi pandemica, una condizione strutturale propizia alla realizzazione della democrazia? Mentre la Ministra si sforzava di tenere le scuole “aperte”, duri attacchi provenienti da diverse forze politiche sono stati rivolti ai più autorevoli esponenti del governo. Dai commenti di alcuni governatori nel merito del desiderio dei bambini di tornare a scuola e riappropriarsi del proprio spazio, si evince che nel dibattito politico la scuola è stata travolta dal populismo, diventando lo strumento politico con cui il governo si scontra con l’opposizione, e lo stato centrale con le regioni. Il dibattito politico sulla scuola nel contesto della pandemia si è appiattito su posizioni qualunquiste e superficiali, discostandosi da riflessioni profonde sugli aspetti trasformazionali della pandemia in un’ottica di ripensamento per il futuro.

In molte democrazie occidentali, come sostiene il politologo Jan-Werner Mueller, i populisti della destra radicale ed autoritaria hanno persuasivamente sostenuto che intellettuali ed esperti (per dirla all’italiana “i professoroni”) rappresentano un problema per la società. Alcuni di questi partiti si servono della guerra alla conoscenza come strumento di controllo degli individui. Si tratta di una guerra culturale, un progetto il cui obiettivo è minare la democrazia e i suoi valori istituzionali. La scuola e l’università sono tutto ciò che esiste di male nella nostra società, secondo la destra radicale di alcuni paesi europei. Victor Orban, Primo Ministro dell’Ungheria, ha coinvolto la scuola nella sua battagli culturale contro i valori liberali. Ha anzitutto imposto la trasformazione dei programmi di insegnamento per le materie storiche e letterarie, avvicinandole ad un’ideologia nazionalista di carattere autoritario; ha inoltre limitato la libertà di espressione dell’Accademia delle Scienze Ungherese. La Central European University di Budapest è stata di fatto chiusa. Nulla di paragonabile è successo nel nostro paese, ed è inverosimile pensare che mai accadrà.

Tuttavia, il populismo non ha i giorni contati; è ciò che alcuni osservatori sostengono malgrado la scarsa capacità di gestire la crisi pandemica nelle amministrazioni Trump, Bolsonaro e Johnson all’inizio della prima ondata, riferendosi ai più noti casi di bad governance. È troppo semplicistico pensare, o sperare, che il populismo perda capacità e strategie di influenzare l’opinione pubblica solo perché incapace di realizzare programmi concreti di gestione della crisi. Anche nel nostro paese il megafono dei populisti non si è spento durante la pandemia, pur avendo ceduto gran parte dell’attenzione mediatica al governo e ai presidenti di regione. Difendere il ruolo della scuola per la costruzione e il consolidamento della democrazia, rifiutandone la riduzione a problema o pericolo, è essenziale per contrastare l’impoverimento e la banalizzazione del confronto politico.

 

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