Ricorderemo tutti il 2020 come l’anno della pandemia, ma non va dimenticato che è stato anche un anno di attivismo e lotta per i diritti che la minaccia del virus non ha fermato. Se si volessero certare le ragioni di queste mobilitazioni in un tempo sospeso, si potrebbe dire che forse, la paura di perdere i nostri cari, specie i più fragili, ci abbia spinto a ripensare le nostre priorità, che il periodo forzato a casa – nella sua valenza di isolamento ed esperienza collettiva al contempo – ci abbia fatto anelare a quel senso di comunità e quel bisogno umano di connessione che ci ha permesso di fare nostre le battaglie di altri.

Una delle battaglie più urgenti e trasversali, poiché tocca metà della popolazione mondiale, ma riguarda chiunque creda nella democrazia, è l’avanzamento della causa della parità di genere. Il fermento delle mobilitazioni femministe su scala globale si è esteso ovunque: si pensi alle consuete manifestazioni per la Giornata Internazionale della Donna, alle proteste contro femminicidi e violenza di genere in Messico, in Argentina, o in seguito all’assassinio di Sara Everard, alla libertà di scegliere se indossare il velo – dalle donne iraniane che si oppongono alla sua imposizione, alle sorelle francesi che rivendicano il diritto di autodeterminarsi indossandolo.

Dalla Nuova Zelanda alla Germania passando per Taiwan, i paesi guidati dalle donne hanno gestito l’emergenza Covid-19 in maniera esemplare. Secondo un recente studio, il successo è da attribuire alle misure restrittive anticipate rispetto ad altri paesi a guida maschile, poiché le donne risulterebbero maggiormente avverse al rischio di perdere vite umane che ai potenziali risvolti economici negativi legati alle chiusure.

Il nuovo anno ha portato agli Stati Uniti la sua prima Vicepresidente, ma ha fatto anche emergere chiaramente le sfide e gli ostacoli dovuti al sessismo endemico che ancora attraversa la sfera decisionale. Da ultimo, il “Sofagate” (letteralmente “incidente del divano”) in cui il Presidente della Turchia Erdoğan ha deliberatamente mancato di offrire un posto a sedere alla Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen in visita ufficiale, nell’ignavia del Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel.

Nella Turchia che è uscita dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, la denuncia della Von der Leyen sul malessere ed il senso di solitudine provato come donna ci fa capire quanta strada vada ancora fatta in questa quarta ondata di femminismo, cominciata nel 2012. Dalle precedenti wave – la lotte per il diritto di voto delle suffragette, la rottura degli schemi sociali tradizionali negli anni ’60 e la nozione di società post-femminista degli anni ’90 – questa fase si articola intorno al concetto di intersezionalità e l’uso di Internet come nuovo polo di acquisizione di informazioni e mobilitazione. Per intersezionalità si intende il modo in cui il genere si sovrappone ad altri elementi identitari da cui derivano forme di oppressione, ad esempio il rapporto tra genere ed etnia, orientamento sessuale, classe sociale, credo e  normoabilità.

È un momento di grande stimolo per scardinare stereotipi, spesso raccontati dall’uso di inglesismi, che rendono questi temi virali e capaci di creare reti di attivismo internazionali che scardinano. Dal movimento #MeToo – “anch’io” per denunciare la diffusione delle molestie sessuali soprattutto sul luogo di lavoro, al rifiuto di riceve fischi per strada che andrebbero bene per un animale e non una persona (cat calling), o dalla volontà di non colpevolizzare la vittima di violenza (victim blaming), all’accettazione dei corpi al di fuori di canoni di bellezza impossibili (body positivity).

In questo contesto di crisi e di lotta, la Fondazione Feltrinelli ha deciso di mettere al centro le storie di donne che hanno fatto sentire la propria voce per rivendicare i diritti calpestati e che risuona tanto più forte nel silenzio generalizzato. Perché se la pandemia ha offerto il pretesto per mettere a tacere le piazze contando sulla scusa di problemi più gravi (quale problema è più impellente dell’uguaglianza tra le persone?), il dissenso contro le prepotenze del potere è un segnale coraggioso che si fa lezione universale di libertà.

Nasce così “We Women / Talks about Women who Fight”, ciclo di tre incontri con la moderazione di Benedetta Tobagi e la collaborazione di Amnesty su temi che riguardano ognuno di noi: la voce, il corpo, l’identità.

Iniziamo il 17 maggio con “Il dissenso della voce: la libertà dei media”, in una conversazione con la giornalista Lina Attalah, co-fondatrice e caporedattrice del quotidiano online Mada Masr, esperienza unica di giornalismo indipendente, attivo in Egitto dal 2013 anche se oggetto di censura. La sua resistenza contro la repressione della libertà di informazione da parte del regime dittatoriale di al-Sisi l’ha portata ad essere tra i giornalisti picchiati dalle forze di sicurezza mentre seguivano le proteste della rivoluzione del 2011, e ad venire più volte arrestata arbitrariamente.

Dall’inizio della pandemia sono state segnalate numerose aggressioni a scapito di reporter e giornalisti: è ormai diventato un simbolo il processo politico da parte del regime di Rodrigo Duterte a Maria Ressa, fondatrice della news agency filippina Rappler. Tra chi ha raccontato verità scomode sulla malagestione della pandemia, ricordiamo l’arresto di Elena Milashina, in prima linea nel denunciare gli abusi del governo Putin in Cecenia, o di Ana Lalić, per avere coraggiosamente raccontato le condizioni tremende in cui riversavano gli ospedali serbi.

Da uno studio dell’International Center for Journalists, le giornaliste sono nell’epicentro del rischio di minacce fisiche e psicologiche sia online che offline. In una prospettiva più ampia, le donne in posizioni di visibilità (politiche, giornaliste, figure pubbliche) sono spesso il target di disinformazione di genere, campagne sistematiche di informazioni false che rafforzando narrazioni misogine ledono alla dignità di persone e credibilità di professioniste, con il fine ultimo di silenziarle.

A proposito di silenzi rotti, mentre le donne argentine hanno potuto esultare dopo trent’anni di lotte per il riconoscimento della genitorialità come diritto e non come imposizione, il terribile retrocedere della legislazione polacca ha tacciato di incostituzionalità il diritto ad interrompere una gravidanza anche nei casi di gravi malformazioni del feto, scatenando proteste che né i divieti legati alla pandemia né le temperature glaciali hanno potuto contenere. Il 25 maggio approfondiremo dunque “Il dissenso del corpo: la libertà di decidere della maternità” con l’attivista polacca Antonina Lewandowska, impegnata su diverse iniziative nonché la più giovane coordinatrice di ASTRA Network, la maggiore rete dell’Europa centrale e orientale per la salute dei diritti sessuali e riproduttivi.

Minacciato ovunque, il diritto ad abortire è stato rimesso al centro delle discussioni dall’emergere di ideologie nativiste che si appellano ad un sistema retrogrado ed oppressivo nei confronti delle donne. Se in troppi paesi del mondo l’interruzione legale di gravidanza è ancora un diritto negato, in Italia è garantito dal 1978 dalla Legge 194, ma troppo spesso ostacolato dall’altissima percentuale di medici obiettori che rende di per sé difficoltoso accedervi. Fortunatamente, campagne come “Aborto al Sicuro” aiutano a rendere questo diritto raggiungibile.

In una prospettiva intersezionale, il ciclo di incontri si chiuderà l’8 giugno con “Il dissenso della pelle: la libertà di costruire la propria identità”, con la testimonianza di Victoria Oluboyo, giovane avvocata, influencer e attivista Black Lives Matter. In un’Italia in cui alcuni temi legati all’integrazione, al multiculturalismo e al riconoscimento dei diritti sono ancora un tabù – come lo ius soli – esistono anche storie di successo di convivenza ed accoglienza, e manifestazioni di solidarietà. Cercheremo allora di capire cosa significhi essere afro-italiana oggi facendo confluire in un unico impegno le battaglie legate all’essere donna e rappresentante di una minoranza etnica.

La fine non è pero la fine, l’11 e 12 giugno la Fondazione Feltrinelli ospiterà il festival “We Women / Dreams from Women about Rights” con due giorni di dibattito, workshop e performance artistiche dedicate alle vittorie delle donne che scardinando gli equilibri di forza esistenti per costruire relazioni più paritarie, ecosistemi più vivibili e società più inclusive.

Il nostro obiettivo sta nelle parole della scrittrice e attivista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie quando afferma che “dovremmo essere tutti femministi”, perché i diritti delle donne sono diritti umani, e nonostante le difficoltà vogliamo celebrare le conquiste fatte e farci forza sulle molte ancora da fare, con ottimismo.

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