Le radici della “reazione illiberale” in Ungheria e Polonia possono essere fatte risalire al periodo antecedente alla svolta paradigmatica compiuta dal premier ungherese V. Orbán nel 2010 e dall’attuale vicepremier polacco J. Kaczyński nel 2015, con cui hanno dato avvio alla “controrivoluzione politica e culturale” nei loro Paesi. Per i conservatori di destra nel 1989 non ci sarebbe stata nessuna rottura storica. Costoro interpretano la storia del cambiamento pacifico e negoziato dalle nuove élite emergenti con i quadri del regime comunista come un accordo fatto dietro le spalle della società, che vale la pena chiamare “tradimento”. Considerano la fase del “post-comunismo” come un periodo transitorio, durante cui si è consolidato un regime di liberalismo antidemocratico. Nel 1989 l’economista J. Williamson aveva coniato l’espressione Washington consensus, che indicava un insieme di direttive di politica economica da destinare ai Paesi in via di sviluppo. In Polonia e Ungheria, queste si sono tradotte in diktat che hanno traghettato le economie di piano di quei Paesi verso il libero mercato ma ad un prezzo sociale salatissimo (soprattutto in Polonia).

Sia il comunismo (pre-1989) sia il liberalismo (post-1989) sono stati concepiti dalla destra come progetti falliti della modernità che si sono vicendevolmente rafforzati nella dialettica. Dunque, in Polonia, la rivoluzione si sarebbe compiuta solo con la svolta del 2015. Attraverso la riscrittura di una nuova storia politica, il partito PiS (Diritto e Giustizia) ha forgiato una coscienza nazionale, nella quale l’autentica fine del socialismo in Polonia non si è avuta nel 1989, con le elezioni semilibere seguite alla Tavola rotonda (dalle quali scaturì il primo governo del dopoguerra a guida non comunista), bensì nel 2015 con la doppia vittoria di Andrzej Duda e di PiS rispettivamente alle elezioni presidenziali e legislative. In Ungheria, la svolta si sarebbe realizzata nel 2010, dopo l’estinzione da parte del governo ungherese di Orbán del debito verso il FMI, con cui veniva sconfitto entro i confini magiari il simbolo dell’oppressione economica di Bruxelles. É proprio sulla rovina economica delle famiglie ungheresi (che non furono più in grado di pagare i mutui sulla casa contratti a tassi variabili e con valuta straniera) che Viktor Orbán debutterà di nuovo sulla scena politica riprendendo nelle sue mani le redini del paese (2010). Orbán paragonerà la crisi finanziaria occidentale del 2008 ai tre grandi eventi storici del Novecento: le due guerre mondiali e la caduta del comunismo.

In Polonia, con la presa del potere di PiS, che eredita l’anima confessionale e integralista del sindacato Solidarność, e in Ungheria, con la vittoria del partito Fidesz (Unione Civica Ungherese), dopo il suo revirement politico, si dà avvio alla costruzione di una forma aggressiva di potere – la “democrazia illiberale”, alla cui base vi è il nazional-populismo. Un’ideologia che si definisce lungo traiettorie identitarie dal punto di vista linguistico, etnico, religioso, e che ha imposto una narrazione miscelata da “generosità” populista (l’economia non è pianificata ma è “distributiva” in termini di benefici e prebende) e megalomania sciovinista, dove la rappresentazione del “nemico alle porte” è un elemento chiave della propaganda di regime per rappresentare lo Stato-nazione. La formula schmittiana “amico-nemico” travalica i confini nazionali. In tempi di pandemia da Covid-19, gli interessi della nazione sono calpestati non solo dalle élite finanziarie internazionali, ma anche dalla “medicina ufficiale” di Bruxelles che nasconde la verità sui vaccini, a scopo di profitto, impaurendo il popolo europeo al solo scopo di sottometterlo alla casta. Oltre al rifiuto dell’universalismo giuridico, il nazional-populismo ribalta una delle acquisizioni fondamentali della modernità: la divisione del lavoro secondo le competenze legate alle forme del sapere. È la disintermediazione, “l’uno vale uno”.

Il nazional-populismo mitteleuropeo si nutre di un fitto sottobosco di movimenti di estrema destra che in questi anni hanno acquisito la capacità di dialogare oltre i propri confini nazionali. Alla marcia dei suprematisti bianchi a Varsavia, l’11 novembre 2017, organizzata per celebrare l’indipendenza polacca, erano presenti gruppi di estrema destra di vari Paesi europei. Da tempo, l’appuntamento nazionale polacco si è trasformato nel meeting europeo dell’Alt-Right, la destra alternativa mondiale. Non si tratta di un movimento politicamente strutturato, ma di una tendenza subculturale ed eterogenea, tuttavia coesa su alcuni principi: il suprematismo bianco, le radici cristiane, la famiglia tradizionale, una visione “nativista” della società. L’11 febbraio 2020 a Budapest è stato organizzato un raduno neonazista. Gruppi militanti dell’estrema destra provenienti da più paesi europei hanno commemorato “la giornata dell’onore”, in memoria delle truppe tedesche e ungheresi che nel febbraio 1945 affrontarono l’Armata Rossa impegnata a liberare la città dalla morsa del nazismo: Combat18 (movimento neonazista britannico, che ha addentellati in Europa e negli USA), Die Rechte (partito nazionalsocialista tedesco) e Nordic Resistance Movement (formazione neonazista attiva nel Nord Europa).

In Polonia, i movimenti di estrema destra più radicati nel territorio sono il Campo nazionale radicale (Obóz Narodowo-Radykalny – ONR), erede ideologico del movimento clericale antisemita del 1935-1939, e promotore delle marce nere celebrative dell’indipendenza nazionale. ONR ha legami stretti con l’organizzazione neofascista italiana Forza Nuova, ed è attivo sulla rete di Alt-Right (es: piattaforma 4chan); la Rinascita nazionale della Polonia(Narodowe Odrodzenie Polski – NOP), che partecipò alla campagna (2006) per liberare dal carcere austriaco il negazionista dell’Olocausto, D. Irving. Ha sostenitori e finanziatori fuori della Polonia, in particolare tra la comunità americana polacca, l’Associazione dei patrioti polacchi residenti a New York e l’Istituto storico revisionista polacco di Chicago; il Movimento Nazionale (Ruch Narodowy – RN), il cui scopo è il “Rovesciamento della repubblica della Tavola rotonda”, e il cui riferimento culturale canonico è R. Dmowski, fondatore di Democrazia Nazionale (Narodowa Demokracja) sorta alla fine del XIX secolo. Ha tra i suoi alleati in Europa Forza Nuova e il partito spagnolo Democracia Nacional; infine, Sangue e onore – Polonia (Krew i Honor – Polska), la filiale dell’organizzazione internazionale, fondata nel Regno Unito, che in Polonia raccoglie tra i suoi militanti i giovani skinhead.

In Ungheria, i movimenti più attivi sono i neo-Horthysti (neo-horthysta) e il neo-movimento delle Croci Frecciate (Nyilaskeresztes Párt – Hungarista Mozgalom), che propugna l’hungarizmus (idea ungherese d’impero). È, inoltre, presente il Movimento giovanile delle Sessantaquattro Contee (Hatvannégy Vármegye Ifjúsági Mozgalom – HVIM)[1], diffuso nelle regioni di Romania, Slovacchia e Serbia, più densamente popolate da ungheresi etnici. Ciò che caratterizza, tuttavia, l’Ungheria sono i vari gruppi paramilitari neonazisti strettamente legati tra loro, che operano nelle aree rurali con l’obiettivo di combattere il “crimine zingaro”. L’Esercito dei fuorilegge (Betyársereg) è il più violento di queste bande nere.

Pur avendo preso le distanze da tutti questi movimenti, i governi di Fidesz e PiS non hanno messo in atto alcuna azione per fermare l’avanzata di un fenomeno che assume contorni sempre più preoccupanti. Anzi, i fili sottili che li legano a questo sottobosco nero sono evidenti: è un decennio che il partito guidato da Orbán piega l’uso pubblico della storia a una logica revisionista. Statue di filosofi e politici democratici sono rimosse o spostate, letture di autori antisemiti sono inserite nei programmi scolastici, Miklós Horthy è stato riabilitato. Orbán ha riacceso l’irredentismo ungherese e lo slogan “Abbasso il Trianon” è diventato il simbolo del tradimento dell’Occidente e sinonimo del revanscismo magiaro mai sopito. Il premier ungherese è un grande interprete del pensiero identitario, condensato nel discorso tenuto in Romania nel luglio 2014, con cui è entrato apertamente in rotta con il paradigma della democrazia liberale. Infine, in Polonia, PiS è impegnato in una revisione della storia in chiave nazionalista, attraverso l’uso strumentale degli Istituti della memoria nazionale e l’introduzione di leggi, come quella sulla Shoah censoria verso chiunque voglia ricordare le complicità dei cittadini polacchi nello sterminio contro gli ebrei.


[1] In memoria della Grande Ungheria, che era divisa in 64 contee.

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 101785\